di Alessandra Savino
Vulcanica e talentuosa, appare su un palcoscenico, così come nel salotto di Asteria Space, durante l’intervista, Paola Arnesano. Origini salentine, il brasiliano come seconda lingua e una voce ormai inconfondibile per gli abitué di jazz club. A partire dal suo esordio come jazz singer, a fine anni ’80, ha collaborato con grandi nomi viaggiando in Italia e all’estero per esibirsi in festival e concerti. Jazz samba e bossa nova sono gli ingredienti del suo repertorio che si fondono in una smisurata passione per la musica brasiliana. Come tutto questo è entrato a far parte della sua vita lo racconta qui, fra un caffè e una risata.
Quando hai capito che la tua voce ti avrebbe permesso di fare ciò che più amavi?
Ho iniziato a cantare da subito anche se facevo tante cose fra teatro, ginnastica artistica. Però, la mia prima passione era quella del canto. A casa c’era mio zio che era insegnante di canto lirico e ad un certo punto mi sono detta che potevo far bene una cosa. Così, ho iniziato prima a fare piccole esperienze in duo o trio. Avevo quindici anni.
Da subito il jazz?
Sì, ho cominciato a cantare gli standard americani perché un amico mi fece pervenire delle musicassette in cui aveva organizzato sul lato A tutte le voci nere come Billie Holiday, Ella Fitzgerald, mentre sul lato B le bianche e, quindi, Julie London, Peggy Lee. Ascoltandole, io mi innamorai delle voci bianche ed iniziai a cantare le loro canzoni. All’epoca non esisteva il pc, youtube, allora comprai i dischi in vinile.
Qual è stato il primo gruppo di cui hai fatto parte?
Avevo diciannove anni, era un quartetto. Il mio primo pianista fu Mario Rosini, al basso c’era Vito Di Modugno, Tonino Semeraro al sax e Michele Di Monte alla batteria. Da loro era composto il mio primo vero quartetto. Di lì ho iniziato ad avere più notorietà.
Ricordi il tuo primo disco?
Certo, come no! In realtà il primo disco non fu proprio a mio nome ma vi partecipavo in maniera preponderante. C’ara Attilio Zanchi al contrabbasso, Guido Di Leone alla chitarra. Alla voce ci alternavamo io, Tiziana Ghiglioni, Bob Mover e Mark Murphy, uno dei più grandi cantanti jazz bianchi. Lo ricordo bene, ero molto emozionata perché erano tutti nomi noti tranne me.
E il primo a tuo nome invece?
Il primo disco a mio nome fu un omaggio alla canzone italiana. Mi piacevano i motivi dagli anni ’30 agli ani ’50, ad esempio quelli del Quartetto Cetra, Gorni Kramer, Carlo Alberto Rossi, o i brani meno noti di Bruno Martino. Feci una ricerca tra gli spartiti del mio vecchio suocero, ne lessi un centinaio per poi estrapolarne solo tredici da cui fare il disco. Il mio batterista fu Gianni Cazzola, che era stato il batterista diciannovenne di Billie Holiday quando lei veniva in Italia e si avvaleva di musicisti italiani. Era il ’96, avevo venticinque anni e mi emozionò tantissimo.
Curavi già anche gli arrangiamenti?
Quello non era ancora il primo disco a livello di arrangiamenti perché l’unica cosa di mio pugno furono dei ‘vocalesi’. Si tratta di una pratica attraverso cui il cantante estrapola e trascrive dei soli che si imparano a memoria e si inseriscono dei testi. Io giocai con testi in italiano, inglese e brasiliano. Gli arrangiamenti invece li fece Guido Di Leone. Dopo il primo disco, iniziai a fare dei percorsi di studio fino ad arrivare all’orchestrazione sinfonica perché mi sarebbe piaciuto fare l’arrangiatore per orchestra. Cosa che alla fine poi ho fatto. Quindi realizzai un secondo disco nel ’98 a mio nome dedicato ai pianisti jazz moderni totalmente riarrangiato da me. Lo considero il mio vero ‘figlio’ perché fra testi e arrangiamenti era fatto interamente da me.
Come hai scoperto la musica brasiliana?
E’ stato un incontro avvenuto almeno cinque anni dopo l’inizio del mio percorso come cantante. Avevo circa diciannove anni ed è stata una scoperta casuale. Spesso andavo ad ascoltare i concerti di Vito Di Modugno che era innamorato di Tania Maria. Sono rimasta totalmente affascinata dalla musica brasiliana ed iniziai a cantare con un gruppo storico con cui ho fatto molti concerti. Si chiamava Jazz’n Samba ed era composto da Giudo di Leone alla chitarra, Paolo Romano al basso, Michele Vurchio alla batteria e Angelo Adamo all’armonica cromatica. Feci con loro il mio primo grande concerto importante in un locale a Bari che poi fu chiuso, lo Strange Fruit, che aveva una programmazione con grossi nomi come Mike Stern, Cassandra Wilson.
Hai dovuto imparare il brasiliano quindi?
Dopo quel concerto mi si avvicinò una donna brasiliana la quale mi disse che le piaceva tanto il mio sound ma non aveva capito nulla di ciò che cantavo. Mi sentii malissimo e decisi di studiare la lingua brasiliana. Studiai per cinque anni con Rilda Santiago che era insegnante di lettere brasiliane. Ora parlo il brasiliano meglio dell’inglese.
Il primo disco di musica brasiliana quando è arrivato?
Allora, il primo non fu a mio nome ma del gruppo Abrasileirado composto da Poldo Sebastiani, Mimmo Campanale, Mario Rosini, Guido Di Leone ed Enzo Falco. Il disco si intitolava “Terra de sol” e conteneva brani tutti originali di Guido Di Leone con testi miei. Infatti, dopo averlo studiato, iniziai anche a scrivere in brasiliano. Il primo disco a mio nome si intitolava “Falando de Jobim” che significa “Parlando di Jobim”. Quest’ultimo, Tom Jobim, era da sempre uno dei miei compositori preferiti ed era omaggio rivolto a lui con brani meno noti.
Scrivi direttamente in brasiliano i testi oppure li traduci successivamente?
Penso e scrivo direttamente in brasiliano. Quando compongo, la prima cosa che nasce è la melodia e non il testo. Quindi poi non potrei accostare alla melodia un testo in italiano perché poi traducendolo in brasiliano la metrica sarebbe diversa.
Quali sono i temi principali della musica brasiliana?
Variano a seconda che si tratti di musica popolare brasiliana che inizia alla fine dell’800 e comprende brani associati al ballo, alla terra, alla tradizione, brani nostalgici e non di ribellione. Poi ci sono quelli che risalgono alla fine degli anni ’50 che sono pessimistici. La Bossa nova è caratterizzata spesso dal contrasto fra la musica molto allegra e il testo grave e pesante. Nei miei testi personalmente, dipende da cosa mi ispira. Sicuramente l’amore è un terreno fertile ma a volte mi succede di scrivere anche testi molto ermetici.
E da dove trai l’ispirazione?
Dall’immagine che la musica mi suggerisce. Il testo viene sempre dopo. Se dovessi sedermi a tavolino per scrivere non mi verrebbe mai. Mi dispiace che a volte mi sono venute delle idee però magari ero in un posto lontanissimo dal pianoforte. Oggi c’è l’iPhone che con il memo vocale ti permette di conservare quella melodia.
La melodia che componi da cosa viene suggerita?
Da un’immagine, una situazione, dei rapporti interpersonali, un episodio accaduto. Qualunque cosa che mi stimoli un sentimento, è come se ci fosse un bottone. Quando succede lo devi fare subito e io in quei momenti spero sempre di trovarmi vicino al pianoforte.
Jazz da un lato e musica brasiliana dall’altro: cosa li unisce nelle tue interpretazioni?
Il ponte fra questi due mondi c’è ed è forte ma non solo per me. La musica brasiliana è sempre stata amata dai jazzisti e viceversa. Sin dagli anni ’20 e’30 esistevano caffè letterari in Brasile in cui ci si riuniva per ascoltare i vinili di Frank Sinatra, piuttosto che di Glenn Miller. C’è stato poi l’incontro con la Bossa nova che ha stimolato molto i jazzisti. Uno che ha creato un forte filo conduttore fra questi due generi è stato un chitarrista americano che si chiama Jim Hall. E’ lui fondamentalmente che ha fatto in modo che ci fossero interpreti jazz di questa musica in America. Per cui a livello di interpretazione, il filo conduttore tra i due generi è la saudade (nostalgia) che nel jazz è il blues. Se entri con quel tipo di pathos, l’interpretazione riesce a raccontare qualcosa.
Sei mai stata in Brasile?
Sembrerà assurdo, ma non ci sono mai stata. Ho avuto due occasioni ma me le sono perse perché avevo dei concerti grossi da fare qui. Ma è un viaggio che ho nei miei pensieri. A farmi immaginare il Brasile ci pensano tutti i miei amici musicisti brasiliani con cui collaboro.
Quali sono i prossimi progetti discografici a cui stai lavorando?
Non posso svelarti molto finchè non usciranno. Posso dirti solo che uno sarà in collaborazione con il fisarmonicista Vince Abbracciante con il quale continuerò a fare dischi che riportano punti esclamativi nel titolo che è la nostra esclamazione di gioia nel farlo: il primo è stato “Tango!”, il secondo “MPB!” e poi faremo un terzo disco. Stiamo pensando a qualcosa di filologico. Un altro progetto poi sta prendendo corpo con un bravissimo pianista che si chiama Claudio Filippini con cui c’è un forte feeling.
Cosa accade in te quando canti?
Noi cantanti siamo portatori sani di parola e questo è bellissimo. Da un lato ci sprona ad entrare più facilmente in quello che facciamo però, a volte, purtroppo, siamo costretti a cantare dei testi americani che erano stati composti solo per far ballare la gente fra la prima e la seconda guerra mondiale. Invece ci sono dei testi brasiliani che sono di una poesia altissima e più di una volta mi è capitato addirittura di arrivare a piangere mentre li cantavo. E’ successo recentemente con Claudio Filippini. Quando una bella melodia è associata ad un testo del genere è molto pericoloso per noi. C’era un brano che provavo con Vince Abbracciante che non riuscivamo a finire perché entrambi piangevamo nello stesso punto.
Qual è il brano che hai cantato di più fino ad ora?
Sicuramente uno standard americano che si intitola “Body and soul” che è stato molto interpretato da una miriade di artisti. E’ un brano che stranamente trovo sempre nuovo, è come se morisse ogni volta che finisco di cantarlo e risorgesse in veste nuova ogni volta che lo canto. E dovrebbe essere sempre così per un artista.
Comments 1
Bellissima intervista!