di Alessandra Savino
Vulcanica ed eclettica, la giovane scrittrice Annamaria Pazienza è un’amante dell’arte a trecentosessanta gradi. Capiterà di incontrarla con una macchina fotografica o una chitarra far le mani, o, se si è ancor più fortunati, mentre è assorta nella stesura di uno dei suoi libri. Due quelli già pubblicati, “Gli occhi che non avrò” e “Mi ridai un po’ di blu?”, romanzi brevi ma intensi, accattivanti, intrisi di vita vera. Temi non semplici da trattare, che la Pazienza riesce a rendere meno insidiosi per i suoi lettori attraverso un linguaggio tutt’altro che ermetico. Come sia nato il suo rapporto con la scrittura e cosa abbia ispirato i suoi lavori letterari lo racconta in questa intervista.
Quando hai preso per la prima volta la penna in mano per scrivere?
Più che la penna è stato il computer perché ho i pensieri troppo veloci e non riesco a scrivere con carta e penna purtroppo. La prima volta che ho scritto qualcosa è stato sicuramente durante un PON a scuola con la professoressa Mariella Cassano del Liceo Classico Sylos, incentrato sulla figura della donna. Durante questo progetto pomeridiano realizzavamo degli elaborati. Poiché non ero un’alunna delle più tranquille a scuola, quando la professoressa lesse ciò che avevo scritto mi rimproverò per non averlo fatto prima. Da allora non ho più smesso. Ho iniziato scrivendo pensieri finchè non è stato pubblicato “Gli occhi che non avrò”, il mio primo libro, ad ottobre del 2011.
Come nasce questo tuo primo lavoro letterario?
E’ un romanzo ispirato ad una storia vera. Un giorno mentre stavo ascoltando il telegiornale, andò in onda la sconvolgente notizia di un uomo, un professore di fisica, che durante la messa, al momento dell’omelia, si cavò gli occhi. C’è alle spalle, quindi, un episodio di cronaca reale. Da lì sono partita sia per analizzare i pensieri interiori di Giulio, il protagonista del libro, cercando di abbattere il pregiudizio: ovvero che un matto non è lo scemo del villaggio, ma può provare sentimenti e non è in grado di controllare la sua follia a meno che non ci sia un aiuto costante dall’esterno.
In quanto tempo è stata scritta questa storia?
E’ stata un’opera lenta perché il tema era abbastanza forte. Ho dovuto studiare molto tutto l’ambito psicanalitico. Generalmente non scrivo mai in maniera continua poiché ho bisogno di prendere quanto più possibile dalla mia vita reale ed ogni avvenimento importante che mi capita cerco di portarlo nel libro. Se non succede nulla che mi dia l’input per scrivere resto ferma. “Gli occhi che non avrò” l’ho completato in tre anni: l’ho ripreso, lasciato, corretto. Alla fine ho dovuto rivedere il registro linguistico che avevo utilizzato perché avevo iniziato a scrivere quel libro a vent’anni con uno stile più infantile che andava rimodulato dopo tre anni.
Ricordi qualche fonte scientifica che hai consultato?
Mi sono documentata sull’episodio del protagonista per capire cosa fosse accaduto realmente e poi ho raccolto testimonianze attraverso interviste, materiale fotografico relativo ai manicomi degli anni ’50 e ’60. Ho letto “L’altra verità. Diario di una diversa” di Alda Merini, romanzo autobiografico in cui racconta la sua degenza in manicomio. Fondendo tutti questi materiali consultati ho cercato di romanzare nella maniera più semplice possibile sebbene “Gli occhi che non avrò” sia un’opera introspettiva, dunque, abbastanza complessa.
Dal primo al secondo romanzo quanto tempo è passato? Cosa è cambiato nel tuo modo di approcciarti alla scrittura?
Sono trascorsi tre anni prima mi rimettessi a lavorare sul secondo romanzo. E’ cambiato qualcosa perché mi sono accorta che la mia scrittura era troppo ermetica e, quindi, poco accessibile a più target. Ho voluto indirizzare il tutto verso un ambito più giovanile. Non è un romanzo per ragazzi, tuttavia può essere letto anche da loro perché la scrittura è scorrevole, il romanzo non è molto lungo ed intervallato da poesie. Ogni cinque capitoli c’è una poesia creando una fusione fra prosa e versi.
“Mi ridai un po’ di blu?” è, dunque, il tuo secondo romanzo: cosa ti ha portato a scriverlo?
Credo che in ogni libro ci sia un’alta percentuale della vita dell’autore. Questi è il mio pensiero perché raramente scrivo qualcosa che non vivo in prima persona. Mi è capitata nella vita una persona che mi ha scatenato una serie di emozioni e dovevo metabolizzare quello che mi era accaduto e trovare un punto di forza nel male con cui mi stavo confrontando. Dovevo prendere quel male e trasformarlo in bene.
Cosa rappresenta il blu per te?
Oltre ad esser il mio colore preferito, è legato ai concetti di dipendenza, infatti viene utilizzato nelle schermate dei social, e calma, poiché ha un effetto sul sistema nervoso parasimpatico creando una sensazione di quiete nel soggetto. Per quest’ultimo motivo, il blu è stato utilizzato nei reparti ospedalieri di pediatria e psichiatria proprio per calmare i pazienti più iperattivi, come i bambini e i pazienti psichiatrici. Ho fatto uno studio sul blu poichè è un colore legato alla protagonista del romanzo e a Marco, personaggio maschile. Avevo intuito che quel colore doveva avere un significato molto forte e doveva dare calma a Marco. Quindi il titolo “Mi ridai un po’ di blu” sta per ‘mi ridai un po’ di quella calma che ho perso’.
La copertina del libro riporta un’illustrazione molto bella di Tania Tullo, cosa raffigura e che significato racchiude?
La copertina è ispirata ad una delle poesie contenute nel libro, nel passaggio in cui Marco conosce Sara dopo avere concluso la sua relazione con Andrea. Ad un certo punto Marco chiederà a Sara <<lo vuoi questo strano caffè fatto con l’amore e tutto ciò che posso darti?>>. L’illustratrice Tania Tullo ha tratto ispirazione dalla poesia, ha letto il libro e ha cercato di ridare ad un cuore grigio tutto il blu contenuto in quel caffè. Di qui l’immagine di un cuore immerso in una tazzina blu. Il cuore di Andrea riprende a vivere nel momento in cui incontra Sara e le chiede di ridargli un po’ di calma.
Tu sei anche una fotografa: che differenza c’è tra raccontare attraverso immagini piuttosto che con le parole?
Non trovo una grande differenza. Anche attraverso la scrittura cerco di fornire delle immagini precise, utilizzo delle inquadrature mentali. Posso descrivere un panorama ponendo la camera in un determinato punto e prendendo un’area abbastanza ampia. Questo è accaduto con l’alba su Bari in cui racconto i colori e ciò che vedo in quel momento. Accade che vedo una scena, prendo la macchina fotografica e scatto. Quella immagine lì mi fa poi scrivere. E’ tutto concatenato.
La musica è un’altra tua passione…
Suono ma non scrivo testi perché non riuscirei a dire tutto quello che voglio in una canzone, mi sentirei limitata. La musica, però, è sempre presente anche nel libro. Lì ho cercato di spaziare fra i vari generi passando tranquillamente da De André e De Gregori al rap. Ogni capitolo è aperto da un brano con cui Marco che fa da sottofondo musicale mentre lui scrive una lettera.
Quando scrivi la radio è accesa?
Scrivo ascoltando musica a volume altissimo, preferibilmente straniera e non italiana per evitare di essere distratta dalle parole del testo. La musica mi dà ritmo, infatti la mia è una scrittura molto ritmata.
Qual è il tuo luogo ideale per scrivere?
Ho preso la cattiva abitudine di scrivere anche sul cellulare e l’ultimo capitolo del secondo romanzo è stato scritto proprio con il telefonino in un bar a Bari mentre ero in pausa dal lavoro. Poi l’ho riportato su pc correggendolo e sistemandolo. Questo per dirti che mi ritrovo a scrivere ovunque.
Cosa ti ha regalato questo tuo secondo libro?
Prima di tutto due meraviglioso Saloni del Libro, uno a Torino e un altro a Napoli, poi tante conoscenze, l’emozione di aver ricevuto la richiesta di un ragazzo del Liceo Classico Sylos di Bitonto. Dopo aver letto il libro lui mi ha chiesto se potevo essere io la sua insegnante. E’ stata una soddisfazione personale perché ultimamente mi rendo conto che pochi fanno qualcosa solo per l’altro e non per ricevere altro in cambio.
E’ passato più di un anno dalla pubblicazione di “Mi ridai un po’ di blu?”, inizi a sentire la mancanza della scrittura?
In realtà ho già iniziato a lavorare a due progetti: uno è per un concorso ed è ambientato a Bitonto, l’altro è un po’ più complesso e lo sto realizzando con calma poiché vorrei candidarlo a dei premi. Sarà incentrato sulle dipendenze, quindi, sul rapporto sulla droga. Anche in questo libro si parlerà di una relazione omosessuale di uno spacciatore.
Il tuo sogno è quello di insegnare, quando è nata questa passione?
E’ nata durante l’ultimo anno del liceo grazie alla professoressa Cassano che mi ha preso per mano e mi ha fatto capire l’importanza della letteratura, che sia quella italiana o quella classica. Lei mi ha fatto capire che avevo qualcosa da dare, avevo tantissimo da raccontare della mia vita ma non riuscivo ad esprimerlo. Mascheravo tutto con una risata o una battuta, poi ho letto “Stabat Mater” di Tiziano Scarpa e mi sono resa conto che io potevo realmente insegnare qualcosa.
Come è possibile avvicinare secondo te le nuove generazioni alla lettura?
Sicuramente non imponendo dei libri da leggere durante le vacanze estive. Piuttosto, durante le lezioni, affronterei con gli alunni delle tematiche a loro vicine attraverso un libro che parla di quell’argomento partendo da un libro per ragazzi e affiancando ad essi un classico. Ci sono molti classici che trattano tematiche attuali, a partire dai romanzi dell’800 francese che parlano, in maniera delicata, di sesso e amore senza volgarità.
Quali libri consiglieresti a degli adolescenti?
A chi ama l’arte proporrei di leggere “Lettere a un giovane poeta” di Rainer Maria Rilke, “Stabat Mater” di Scarpa, che ho citato prima e, tra gli autori moderni a cui mi sto appassionando, consigliere Murakami.