dalla rubrica “ARTE e PSICHE”
di Delia Barone
Il teatro è cultura, arte, spettacolo, divertimento, ma anche una forma di terapia chiamata appunto, Teatroterapia. Il concetto di catarsi fu, introdotto da Aristotele per esprimere il peculiare effetto che il dramma greco aveva sui suoi spettatori. Il termine catarsi deriva dal greco kátharsis, che assume il significato di ‘purificare’, ovvero, liberare l’individuo da contaminazioni che danneggiano o corrompono la natura dell’uomo, causandone sofferenza.
<<Tragedia dunque è mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno, a suo luogo, nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto quello di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni>>, asseriva il filosofo e scienziato greco.
Potrebbe sembrare stimolante e introspettiva, la possibilità di interpretare un personaggio storico o di cui non si approvano comportamenti e pensieri, dell’altro sesso, o comunque considerato distante e diverso dalla propria persona, almeno in apparenza. La recitazione allora, legittima implicitamente l’espressione delle parti più intime di sé e di quelle inconsapevoli o meno accettate, con un effetto potenzialmente liberatorio, di crescita e consapevolezza personale. Ecco quindi, che i ruoli del cattivo, del ladro, del bugiardo, dello svitato, seppur socialmente ripudiati, consentono di reificare, in maniera esasperata, anche il ‘lato ombra’ dell’individuo, integrandolo quindi, nella sua personalità.
Nella ricerca del delicato equilibrio tra idee relative al processo di identificazione, secondo Stanislavskij, l’attore deve ‘calarsi’ totalmente nella parte, mediante un lavoro di totale immersione, per il quale è necessario intervenire sia a livello immaginativo che concreto. In altri termini, è necessario individuare e riprodurre gesti e atti, che insieme definiscono le caratteristiche del personaggio. Il rischio di una totale identificazione però, risiede nel fatto che l’attore potrebbe essere sopraffatto dalle emozioni del ruolo ricoperto, con perdita di confini tra sé e il personaggio, restando privo della concentrazione necessaria e sperimentando eventuali disordini emotivi da dover gestire in un secondo tempo. L’attore distante in maniera equilibrata invece, è in grado di recitare il ruolo e di essere nel contempo osservatore del ruolo stesso.
A tal riguardo, Diderot ritiene che l’attore non deve lasciarsi sopraffare da emozioni reali che potrebbero inficiare la padronanza della situazione andando contro le esigenze della rappresentazione. In altri termini, solo se l’attore è in grado di restare sufficientemente distante dal personaggio potrà modulare gesti ed espressioni secondo ciò che la scena richiede. Dunque, l’espressione e la gestione delle emozioni sono aspetti centrali nel teatro così come nella psicologia. L’idea che vi siano conseguenze psicologiche a seguito di una buona recitazione non è nuova, soprattutto a causa dello “scavare profondo” in se stessi, così come nel proprio personaggio.
Amy Cuddy, psicologa sociale dell’università di Harvard, ha dimostrato infatti, che l’assunzione di atteggiamenti specifici, come una posizione eretta con petto in fuori, non modifica unicamente le attitudini mentali, ma anche i livelli ormonali di adrenalina, testosterone, ecc. Il lavoro psicologico più estenuante per l’attore, allora, non è solo quello di entrare nei panni del personaggio, ma anche quello di liberarsi dello stesso. In questi casi, potrebbe risultare d’aiuto anche la tecnica del training autogeno, al fine di riprendere contatti con il proprio essere.
La teatroterapia ha, pertanto, posto in risalto gli aspetti intrinseci del teatro come potenziali fautori di cambiamento. Ciò di cui tale arte è capace, non si limita solo ad un cambiamento di consapevolezza personale, essa può spingere chiunque la pratichi a cambiamenti profondi, cognitivi e comportamentali rispetto alla percezione di sé, degli altri e di sé in relazione agli altri. La complessità della persona e la poliedricità di ruoli che le appartengono vengono ricercati e rivalorizzati, attraverso un lavoro pre-espressivo che riscopre la varietà degli aspetti linguistici, degli atti e significati simbolici che essi richiamano, giungendo ad un livello profondo e quasi primordiale di ciascun individuo. Per D.W. Winnicott, specializzato in psicoanalisi clinica infantile, il teatro è uno ‘spazio transizionale’ tra desiderio e realtà, mentre la maschera e gli oggetti scenici rappresentano, così come i giocattoli per il bambino, degli ‘oggetti transizionali’, che consentono all’individuo di sperimentarsi nei diversi ruoli per poi “giocare” quello a sé più appropriato.
Dagli anni ’60, nascono, difatti, laboratori teatrali attenti al processo più che al prodotto. L’animazione teatrale si stanzia nelle zone del disagio (manicomi, carceri…), dove si parte dai capisaldi della psicoanalisi per avvicinarsi sempre più ai paradigmi teatrali, per i quali, la dimensione dell’incontro e della relazione viene considerata come terapeutica di per sé, una relazione che trasforma i pazienti in attori, realizzatori dei propri desideri.