di Maria Tisci
Se un giorno ti dicessero che fosse possibile entrare nella casa di un tuo vicino coperto da un mantello dell’invisibilità, senza essere visto, per poter semplicemente osservare ciò che succedere nell’ abitazione di qualcuno che un po’ conosci, che ha delle abitudini tutto sommato simili alle tue, cosa ti aspetteresti? magari potresti osservare qual è la sua normalità, se litiga ogni tanto, cosa fa nel suo tempo libero. Insomma, volendo indossare i panni del celeberrimo fotoreporter protagonista di “Una finestre sul cortile” di Alfred Hitchcock, costretto su una sedia a rotelle con un gesso al piede che per passare il tempo scruta nelle case altrui con un teleobiettivo.
Domenica 24 ottobre, alla Cittadella degli Artisti di Molfetta, ho assistito alla prima di “Verde Bianco Rosso”. Questo spettacolo è il risultato di un lavoro di ricerca condotto durante una residenza artistica presso la Cittadella degli Artisti di Molfetta e il Liceo Scientifico L. Da Vinci di Bisceglie nell’ambito del progetto Cre_Azioni.
La coreografa e danzatrice Carmen De Sandi, che ha condotto questa ricerca, ha raccontato come questo spettacolo ha preso forma partendo dallo studio dei concetti di ‘comunità’ e ‘relazioni’. E’ il frutto di un’ indagine sulle infinite possibilità di interazione tra persone e linguaggi diversi, in una condizione di vicinanza e distanza, riconducibili nel medesimo tempo ad una dimensione spaziale, temporale, psicologica e sociologica.
Entrati in sala, la scena si presenta aperta e la scenografia presente sul palco, apparentemente molto semplice e anonima, era composta da pannelli bianchi, a forma di parallelepipedi, muniti di rotelle e disposti in fila uno dietro l’altro. Quando le luci in sala sono state abbassate e lo spettacolo è iniziato, i pannelli hanno preso vita, animati dagli stessi performer con abili movimenti e da una danza di luci.
Lo spettacolo è sviluppato in scene, veri e propri episodi, intervallati da cambi di costume e dei movimenti dei pannelli-quinte. Proprio il movimento e l’illuminazione di questi pannelli restituiscono quella immagine di movimento e frenesia tipiche di una città viva, addirittura caotica, che brilla tra le sue luci, tra il continuo sfrecciare delle macchine nel trambusto del traffico.
La città che viene raccontata è una città sulla quale lo spettatore ha una vista privilegiata. Può sbirciare frangenti di vita e quotidianità dei suoi abitanti per ritrovarsi ad esempio nella casa della moglie, forse madre, esausta che stende i panni e si occupa delle faccende domestiche che ricorda la Venere degli stracci del Pistoletto.
I danzatori, Carmen De Sandi e Mauro Losapio, durante tutta la performance, che dura poco più di un’ora, sono sempre in scena. Si cambiano dietro i pannelli bianchi, che assumono funzioni diverse a seconda delle esigenze sceniche. Sono la tela bianca su cui dipingere di volta in volta una nuova storia, un nuovo episodio. Diventano improvvisamente delle quinte-mobili, trasportate da un angolo all’altro del palco e poi ancora, tra una giravolta e le luci colorate, i pannelli si trasformano insieme ai suoi abitanti e diventano delle finestre, dei corridoi dei supermercati, non manca il carrello del supermercato, dei palazzi, un tavolo da pranzo.
I giochi di luce e ombre creati dai movimenti dei danzatori si proiettano come in un teatrino delle ombre su questi fogli bianchi e danno vita a nuovi dipinti e immagini. In definitiva, questa scenografia, apparentemente anonima, curata da Filippo Affatati, diventa un supporto fondamentale, un tratto inconfondibile e sorprendente di questo spettacolo.
Molto interessante è stato l’utilizzo dei costumi curato da Ambra Amoruso. Non sono dei semplici costumi, ma dei veri e propri oggetti di scena principali. Compaiono all’improvviso inondando la scena e da quel momento in poi diventano un elemento fondamentale. I protagonisti si cambiano, li piegano, li fanno sparire chissà dove. I colori sono quelli del tricolore, eppure in ogni puntata sono sempre diversi e caratterizzano con cura ogni personaggio e le sue trasformazioni.
Capitolo a sé è da dedicare alle musiche che hanno accompagnato tutto lo spettacolo. In scena sono sempre presenti i danzatori, ma durante l’ultimo episodio sale sul palco un musicista ed è solo allora che ci si rende conto di come in realtà i performer presenti in teatro sono tre, non due. Infatti, il musicista Giuseppe Pascucci, oltre ad aver firmato tutte le musiche, le ha anche eseguite in live nel corso della serata per poi mostrarsi e esibirsi sul palco solo per l’ultimo pezzo. E’ stata una grande sorpresa averlo scoperto solo alla fine e un peccato non averlo intuito prima, probabilmente avrebbe dato tutto un altro sapore allo spettacolo, sicuramente avrebbe reso più attento l’ascoltatore.
Concludendo, “VERDE BIANCO ROSSO”, come suggerisce il titolo, è uno spettacolo che cerca di restituirci un’immagine della nostra società fatta anche di stereotipi e di peculiari abitudini. E’ uno spettacolo che non rinuncia alla sua vena comica, infatti alcuni degli episodi raccontati culminano in una dimensione assurda, seppur divertente. Ne è un esempio il sorprendente inseguimento tra gli scaffali del supermercato.
E’ ora di toglierci il mantello che ci rende invisibili e tirare le somme di quello che abbiamo visto. Sarebbe riduttivo definirlo uno spettacolo di sola danza, perché c’è una componente molto importante della musica dal vivo e recitazione, seppure non sia prosa. E’ uno spettacolo in cui si gioca e sperimenta con più linguaggi, per questo è sicuramente audace e va visto con curiosità. Insomma, ci fornisce quel mantello dell’invisibilità che ci permette di guardare e riflettere proprio su qualcosa che è la nostra normalità, su quelle abitudini che agli occhi degli altri possono essere peculiari, ma così nostre che difficilmente riusciremmo ad osservare e a mettere in discussione con un sorriso sulle labbra.