di Maria Tisci
Sei provette, o sei gabbie, forse sei cilindri per mantenere il distanziamento sociale? All’interno di ogni cilindro un attore, con indosso un saio bianco, che non si sa bene cosa o chi possa rappresentare. Dalla parte opposta un cilindro in plexiglass trasparente, ornato di un drappo dorato. Questa era la scenografia semplice ed essenziale di “Evə”, spettacolo teatrale che ha debuttato sabato 13 novembre al teatro Kismet di Bari. Una produzione di Teatri di Vita, con la regia di Andrea Adriatico, Evə racconta di William, un bambino che amava giocare con le bambine e che si interrogava sul perché ciò che voleva fare, in fin dei conti, non coincideva con ciò che facevano i suoi amici e su come mai si sentiva così sbagliato.
La sceneggiatura è tratta dall’omonimo romanzo autobiografico Eve della drammaturga scozzese Jo Clifford, ricordata soprattutto per essere stata riconosciuta come una delle dieci donne insignite del titolo di Outstanding Women of Scotland nel 2017, titolo che viene dato alle donne che si sono distinte per aver contribuito alla crescita culturale del Paese, per essersi distinte e essere diventate dei modelli per le future generazioni. Il messaggio di Jo Clifford, infatti, non solo è d’ispirazione per chi come lei si è sentito inadeguato o sbagliato in un posto, ma è trasversale, modellabile su chiunque ha dovuto fare i conti con se stesso, con ciò che davvero vuole essere nel Mondo, lontano dai giudizi altrui, o ciò che la società ci dice essere giusto o sbagliato. Lei stessa in un’intervista per il National Theatre of Scotland, parlando del suo romanzo afferma <<it’s not a story about trans people, but it’s a everybody story because we all have to make that journey towards our real selves>>, ovvero, <<non è una storia sulle persone trans, ma è la storia di tutti, perché tutti noi dobbiamo affrontare quel viaggio che ci porta verso chi siamo davvero>>.
Questo messaggio, così importante in questi giorni, è emerso anche dall’adattamento andato in scena a Bari. In questo adattamento sono stati centrali anche i temi dell’identità di genere, non più semplificabile in maschio e femmina, ma sempre più attento proprio a chi sta nel mezzo e ai diritti della comunità LGBTQ+. Evə è uno spettacolo corale in cui non mancano dei momenti di comicità, che ha nella inclusività e diversità del cast uno dei suoi punti di forza. Tra gli interpreti troviamo Patrizia Bernardi, Anas Arqawi, Met Decay, Saverio Peschechera, Eva Robin’s e la drag queen newyorkese Julie J., che ha recitato in inglese con il supporto dei sottotitoli in italiano per il pubblico. I movimenti che hanno accompagnato i monologhi, erano lenti, sembravano quasi delle coreografie e sono stati resi difficili per gli attori proprio dal tubo di plexiglass che ognuno di essi indossava.
L’attenzione per tutti coloro che ‘sono nel mezzo’ e non si identificano nel femminile o maschile, emerge anche dalla scelta del titolo, Evə. L’utilizzo del simbolo“ə” (schwa) si pone in linea con il dibattito che pochi mesi fa si è aperto in Italia. Il simbolo dello schwa tanto dibattuto e ben noto ai linguisti perché già presente nell’alfabeto fonetico internazionale, è stato adottato da alcune istituzioni e da alcuni scrittori per indicare il plurale neutro, quello che seguendo le consuete regole della grammatica italiana si indica con il maschile: se abbiamo un gruppo misto di attrici e attori secondo le attuali regole, bisogna utilizzare attori, cioè il plurale maschile. Il problema si pone proprio per tutti coloro che non si identificano in un genere o preferiscono non specificarlo, insomma ‘chi sta nel mezzo’. Evə, quindi, sta proprio per il plurale neutro di Eva.
Interessante è come proprio qualche mese fa l’Accademia della Crusca si era espressa sull’utilizzo di tale simbolo, scrivendo testualmente che <<Non esistendo lo schwa nel repertorio dell’italiano standard, non vediamo alcun motivo per introdurlo. […] L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale>>. Queste sono state le parole del linguista Paolo D’Alessandro su un articolo postato sul blog della nota Accademia. Per quanto l’autorevole Academia in qualche modo stronchi il suo utilizzo, resta il fatto che tale simbolo è nato proprio in risposta a un’esigenza che pare non possa più essere ignorata.