di Maria Tisci
C’è una figura nuda con un velo bianco annodato in vita. È in piedi su una pietra che appare non troppo stabile, eppure lei è ben salda e in equilibrio tanto che sulla sua mano sinistra riposa una colomba bianca. Ha l’eleganza di un personaggio di Botticelli, il fisico magro e definito. La sua pelle è diafana e i capelli sono lunghi, neri e mossi dal vento. Questa Venere contemporanea è una delle protagoniste della mostra Asebeia esposta nell’accogliente Palazzo Studio a Roma il 23 luglio scorso.
Ornella Mercier fotografa e ideatrice del progetto fotografico esposto ha raccontato come il suo lavoro nasce dal riconoscimento e dalla rappresentazione della diversità in tutte le sue forme e si divide in più sottocapitoli, che a loro volta raccontano storie di corpi, di età e di identità e di come questi siano dissonanti rispetto al l’idea di bellezza a cui oggi siamo abituati. Quello realizzato da Ornella Mercier è un lavoro che vale la pena scoprire, non soltanto per la bellezza estetica di ogni scatto, ma anche per la cura e l’attenzione rivolte dall’autrice nel comporre queste immagini facendo una ricerca sulla storia personale di ogni modello e su come ha rielaborato e restituito il concetto di diversità.
La fatica di vivere entro le stringenti regole di una società che non ammette la diversità, non solo estetica, e tende a isolare chi si distingue per decisioni non convenzionali è stata anche affrontata dallo spettacolo Vai a rubare a San Nicola di e con Anna Piscopo diretto da Lamberto Carrozzi il 22 luglio alla Filarmonica Romana. Il punto di partenza appare simile a quello della fotografa Ornella Mercier ed è sintetizzabile nella forte istanza di ribellione che muove i protagonisti e li porta a mettersi in viaggio alla ricerca di nuovi modi per affermare sé stessi.
Se la fotografia imprime su pellicola una storia rendendo l’istante eterno, il mezzo teatrale si affida al tempo di una pièce per raccontare quell’istante, decomprimendo nello spazio e nel tempo ciò che la fotografia imprime su carta.
L’attrice Anna Piscopo veste i panni di Annetta, la protagonista di Vai a rubare a San Nicola. Lei è il fulcro dell’intera costruzione, si staglia su questo fondale sostenendo il testo dall’inizio alla fine seguita soltanto dalle luci e scandendo la performance con il supporto di un semplice costume, una cuffietta dello stesso materiale che le copre il capo e una tinozza con dell’acqua all’interno.
Annetta è una donna giovane, ma non abbastanza da giustificare l’essere ancora non sposata, che vive a Bari nel 1087, anno in cui c’è stata secondo la leggenda la spedizione dei 62 marinai per trafugare da Myra le reliquie di San Nicola. Annetta vive in una condizione di povertà culturale e economica, La sua quotidianità si snoda in un labirinto cinto dalle alte mura dei pregiudizi della città vecchia e dalle soffocanti credenze di una società ben ancorata alle etichette che classificano la donna come madre, moglie o in alternativa monaca o puttana.
Quanta fatica costa vivere in un mondo che ti vuole incasellata, classificata e non riconosce nelle tue peculiarità un valore?
Dalle prime battute appare chiaro come Annetta sia una Santa Barbara destinata a esplodere sotto l’insostenibile pressione sociale, il fiammifero che accende la miccia delle sue pessime decisioni. Lei è gradevole nell’aspetto, ha degli spasimanti, ha l’età per cui deve necessariamente trovare marito nel minor tempo possibile, per poter finalmente fare quel passo che sua sorella e altre sue amiche hanno già fatto: costituire una famiglia e lasciare casa, o nel caso di non aderenza a questo modello, farsi monaca e chiudersi in un convento, ma la nostra protagonista non si rassegna a nessuna di queste prospettive. Lei ha le idee chiare: vuole essere amata e vuole amare, e non chiunque. Si mette in viaggio per raggiungere il suo amato, ma il suo iniziale desiderio, quello che sembrava la finestra per fuggire di casa e raggiungere il suo posto nel mondo si rivela essere una finzione e cede il passo al prorompente e più profondo bisogno di essere vista e riconosciuta per quello che fa, per quello che è e non per ciò che gli altri vorrebbero per lei o per un amore non autentico.
Se si pensa però che Annetta sia semplicemente una eroina o una vittima si sbaglia di grosso. Lei è una che prega per bisogno e chiede grazie ai Santi per necessità. La fede sembra solo un incidente di percorso nella sua vita. Lei è una che non ha scrupoli ed è pronta a vendere il proprio figlio per poter rivedere il mezzo ladruncolo di cui si è invaghita. Non aspetta che qualcosa le venga dato, in questo viaggio lei ruba, usa il suo corpo come strumento per ottenere ciò di cui ha immediato bisogno e scopre il piacere. Inganna per il gusto di farlo e per sopravvivere a un mondo che rivela sempre il suo aspetto peggiore. Ogni passo è potenzialmente una trappola e l’inganno sembra l’unica moneta di scambio che funziona per ottenere ciò che le serve. Così anche il suo modo di amare e essere amata è un continuo raggiro, il suo rapporto con il Santo non è più onesto di quello che intesse con chiunque le si avvicini e, in questa catena infinita di bugie, lei stessa diventa vittima, oltre che aguzzina.
Tra leggenda, fiaba e magia l’anti eroina tutta barese Annetta si mette in viaggio per essere vista, per essere amata, per lasciare andare il superfluo e scoprire chi è davvero. Non una moglie o una madre, ma la protagonista della sua vita, alla ricerca del riscatto, di quell’uomo che ha amato e da cui vorrebbe essere amata e di un Santo che l’ha scelta e a cui lei si affida. Perché essere scelti ci fa sentire speciali e quando non si ha più nulla, ci si aggrappa a ciò che resta.
C’è una donna mezza nuda in scena. Ha l’affanno e la faccia sporca di trucco impastato col sudore. È soddisfatta e affaticata. Le sue mani sono sporche di sangue e acqua salata. C’è una donna in scena che ha trovato il proprio equilibrio attraversando terre lontane e impensabili fino a poco tempo prima e ora brilla, lei brilla per davvero sotto le luci di una città che finalmente la riconosce.