Intervista all’artista
di Francesca Pastoressa
Alessandro Malossi, classe ’93, è un giovane artista italiano che rappresenta al meglio un nuovo modo di fare arte, decisamente provocatorio e dal forte senso critico, che strizza l’occhio alle nuove generazioni e si lascia attraversare dallo spirito dei tempi che attraversa. I lavori che condivide sui suoi social sono i tipici post dallo spirito irriverente che condivideresti nelle tue Instagram stories, ma la sua arte è anche molto altro. È stato, infatti, subito notato da una galleria d’arte, Imago Art-Gallery, con sede a Lugano, che dal 2007 si occupa di promuovere giovani promesse dell’arte italiana in giro per il mondo, e con la quale il giovane artista collabora da circa tre anni. Così, le sue opere digitali hanno attraversato lo schermo e sono diventate dei lavori fisici che hanno trovato spazio in alcune mostre, accrescendone l’impatto mediatico. La moda è parte integrante del suo processo creativo ed è alla base di alcuni dei suoi lavori più iconici, di cui ci ha raccontato quando lo abbiamo incontrato.
Chi è Alessandro Malossi e come nasce la sua passione per l’arte?
Sin da quanto ero piccolo ho sempre avuto la passione per l’arte, il disegno e tutto ciò che era semplicemente pasticciare. Sono stato fortunato perché i miei genitori sono stati abbastanza svegli e lucidi da capire che potevano aiutami a coltivare questo che per me inizialmente era un semplice hobby, ma che con il tempo si è trasformato in una passione e adesso è il mio lavoro. Quindi ho iniziato da veramente piccolissimo a disegnare e tutti gli studi che ho fatto dopo sono sempre stati legati al mondo dell’arte: ho frequentato il Liceo artistico a Bologna, poi dopo mi sono spostato a Milano dove ho frequentato la NABA – corso di Pittura e Arti Visive – e, parallelamente, mentre frequentavo l’Università, ho iniziato a lavorare per conto mio soprattutto grazie all’utilizzo dei social. In quel periodo lì, circa dieci anni fa, c’erano soprattutto Facebook e Instagram, con i quali ho cercato di farmi conoscere; è stato lì, infatti, che ho condiviso i miei primi lavori, soprattutto di realismo, che andavano molto virali, perché sembravano foto. Contemporaneamente dipingevo anche su capi d’abbigliamento, qualcosa di nuovo per l’Italia e molto più incentrato sull’America, infatti credo di essere stato uno dei primi a portare questa pratica nel nostro Paese. Molti brand si sono dimostrati interessati alla cosa e hanno iniziato a contattarmi per degli eventi: è così che ho intrecciato i mie primi contatti con il mondo dei brand e della moda. Con gli anni, poi, sono successe tante cose e mi sono specializzato sull’arte digitale, che è ciò di cui ora mi occupo maggiormente. Nel frattempo, mi è stata anche data una Galleria, Imago Art-Gallery, con la quale collaboro da circa tre anni per la realizzazione di mostre e altri eventi.
Questo binomio tra arte e moda è quindi nato dall’idea di dipingere su dei capi d’abbigliamento, ed è stato Levi’s il primo brand a investire in questi tuoi lavori. Com’è nata questa collaborazione e come è cambiato il tuo percorso da quel momento?
Banalmente, la prima giacca che ho dipinto è stata quella di un mio amico influencer per un evento di Levi’s al quale doveva partecipare. Sia io che lui abbiamo postato su Instagram una foto del mio lavoro, che è stato subito notato dallo stylist di Katy Perry, Johnny Wujek, il quale ha condiviso lo scatto e mi ha chiesto di realizzarne una per lui – anche se non l’ha mai utilizzata (ride) – però di lì, trattandosi di un rappresentante abbastanza noto del suo settore, con rapporto molto stretto con Levi’s, il brand mi ha contattato per fare un evento in Corso Como per Fondazione Sozzani, per il quale ho dovuto dipingere un gran numero di giacche. È così che tutta ha avuto inizio, perché dopo sono stato ingaggiato da molti altri brand che si sono dimostrati interessati alla mia arte e hanno voluto avviare delle collaborazioni.
Oltre ai brand con i quali hai già avuto modo lavorare, ce n’è qualcuno con il quale non hai ancora collaborato e che ti piacerebbe poter raggiungere con la tua arte?
Ce n’è più di uno, a dire il vero. Anche se adesso sono un po’ cambiati i miei obiettivi, da un lato perché per le capsule collection dipinte, per questioni tecniche, come si può ben immaginare, non si può ragionare in termini di grande produzione; dall’altro perché quello su cui sto cercando di concentrarmi adesso e che vorrei riuscire a portare avanti, arrivato a trent’anni con un po’ più di esperienza alle spalle, è l’art direction. Però, tornando alla domanda iniziale, sì, ci sono un bel po’ di brand con i quali mi piacerebbe poter collaborare, non so dirti un nome specifico. Anzi, mi piacerebbe ancora di più poter avere la possibilità di spaziare. In generale, per come sono io adesso, mi andrebbe bene tutto, perché ho voglia di mettere la mia creatività a disposizione di un brand e, perché no, anche riuscire a stravolgerlo.
NOAH e MUS3UM sono due progetti da cui emerge chiaramente quanto la moda ispiri i tuoi lavori. Raccontaci cosa c’è dietro a questi lavori e qual è il messaggio che vogliono trasmettere.
NOAH è stata la mia prima serie digitale volta a una tiratura che comportasse anche la vendita di quadri fisici. A primo impatto potrebbero sembrare solo immagini molto estetiche, perché si tratta di animali realizzati con l’assemblaggio di scarpe o accessori rubati da alcuni dei brand di alta moda più mainstream – da Balenciaga a Gucci, Dior e Prada – ma in realtà dietro si nasconde un forte messaggio di critica sociale: ho immaginato un’Arca di Noè nei giorni nostri, in cui probabilmente i giovani, piuttosto che decidere di salvare gli animali, preferirebbero portare con sé delle sneakers, o qualsiasi altro bene materiale. Di lì poi il progetto si è esteso, ed ho anche realizzato una serie che si chiama PLASTIC, che, come si può evincere dal nome stesso, è volta alla sensibilizzazione sull’inquinamento dei mari e per la quale ho adottato la stessa tecnica con cui ho realizzato NOAH, questa volta però utilizzando delle bottiglie di plastica per ricreare gli animali. Lo spin-off del progetto sono due opere, che vanno sotto il nome di MUS3UM – l’Urlo di Munch e la Gioconda – che riprendono il concept delle due serie precedenti e sono sempre rivolte alle nuove generazioni, ma con un messaggio diverso rispetto a quello ambientale: preferiresti andare a fare shopping o visitare un museo?
Emerge una provocazione alle nuove generazioni che stanno perdendo un po’ il senso delle cose essendo figlie dell’epoca del consumismo…
Sicuramente questa è una caratteristica importante delle nuove generazioni, ma credo anche che le cose siano molto cambiate negli ultimi anni. Infatti, da quando ho realizzato NOAH ad oggi, i giovanissimi si sono mostrati sempre più legati alla tematica ambiente di quanto non lo fossero solo cinque anni fa; questo grazie sia alla crescente velocità con cui viaggiano le notizie, che ai nuovi social – come, per esempio, TikTok – e ai trend che ne derivano, con cui si cerca sempre di favorire la salvaguardia del Pianeta, l’utilizzo di materiale riciclabili e via dicendo. Alla luce di questi recentissimi cambiamenti, posso arrivare addirittura a dire che probabilmente ad oggi NOAH non lo rifarei, perché se qualche anno fa aveva senso insistere sulla sensibilizzazione delle nuove generazioni, oggi non è più così. Io stesso sto cercando di realizzare qualcosa di più legato alla salvaguardia dell’ambiente e del clima, quindi più legate a questa declinazione della tematica, piuttosto che sull’aspetto del consumismo che aveva mosso i miei lavori precedenti.
Essendo un esponente di una generazione di mezzo, nei tuoi lavori hai sperimentato tanto l’arte pittorica in una prima fase, quanto quella digitale nelle tue opere più recenti: questo passaggio dalla tradizione all’innovazione è stato dovuto e inevitabile, oppure è avvenuto in maniera del tutto naturale? Quanto hai sentito la necessità di dover adattare la tua arte a quest’ondata di cambiamento che sta progressivamente spostando tutto verso il digitale?
Per me è stato molto naturale e, se vogliamo, anche casuale. È iniziato tutto durante il periodo di Covid, quando, mentre come tutto il resto del mondo mi trovato a casa annoiato, mi è stato regalato un iPad per il mio compleanno, il 17 marzo, quindi a pochissimi giorni dall’inizio della quarantena. Fino a quel momento avevo fatto per lo più lavori manuali o, al massimo, avevo utilizzato il computer con Photoshop e simili. Avendo però una forte base di disegno, lavorare con un iPad su delle foto per creare degli oggetti digitali surreali che sembrassero veri, mi è venuto molto naturale. Allora mi sono lanciato in quest’impresa e ho visto che su Instagram questi miei lavori erano molto apprezzati, tanto che ho acquisito circa 150mila follower in meno di un anno. Di lì ho deciso di coltivare questo nuovo modo di fare arte e ancora oggi sto continuando a specializzarmi in questo.
Credi che la tradizione sopravvivrà o soccomberà inevitabilmente?
Sopravvivrà, assolutamente. Credo che la digital art sia qualcosa in più, che non toglie nulla al modo tradizionale di fare arte, perché sono totalmente indipendenti l’una dall’altra.
Come nasce VOGU3?
Mi sono sempre sentito un po’ un intermediario tra il mondo dell’arte e quello della moda, con un focus particolare sull’arte, sicuramente, ma avendo lavorato con molti brand sono anche molto legato al panorama del fashion. Così, un giorno, mi sono chiesto cosa potesse raccontare al meglio questo connubio tra arte e moda, ed ho appunto pensato di prendere dodici copertine di Vogue – che rappresentano solo una ristretta selezione di venticinque – tra le più iconiche delle ultime realizzate e di stravolgerle un po’ con il mio stile digitale.
Il tuo lavoro di cui vai più fiero?
Sicuramente NOAH, che è stata la serie che mi ha lanciato e mi ha permesso di fare uno step da semplice ragazzo che fa disegno e arte per hobby su Instagram ad artista vero e proprio.
Qual è l’ispirazione alla base dei tuoi lavori?
In realtà sono molti istintivo, quindi a meno che non abbia un cliente o una collaborazione per la quale mi contattano e per cui devo farmi venire appositamente un’idea, in linea di massima i miei lavori nascono letteralmente come fulmini a ciel sereno. Posso essere in giro, a casa o semplicemente a perdere il mio tempo al cellulare, che mi vengono idee un po’ a caso, sulle quali poi chiaramente faccio delle prove per verificare che possano effettivamente funzionare. Quasi mai è buona la prima, però è così che nascono le ispirazioni sulle quali poi lavorare successivamente.
Cosa dobbiamo aspettarci dai tuoi progetti futuri? La moda sarà inclusa?
Non posso fare spoiler, perché non è ancora del tutto confermato, ma sto per fare una collaborazione con una grossa casa di design. Quindi questo è il mio focus attuale, nel quale sto mettendo anima e cuore. Ma si scoprirà tutto a breve.