di Alessandra Savino
Fotografare per denunciare, confrontarsi con criticità, luoghi comuni ed ossessioni che riempiono la nostra società. E’ ciò che fa Daniela Grimaldi, attraverso il suo obiettivo, catturando scatti che potremmo definire ‘teatrali’. Veri e propri abiti da scena, che si diverte a realizzare con materiali di riciclo, ricoprono le sue modelle, ritratte in pose plastiche accuratamente studiate. In occasione della sua prima mostra, ha affrontato un tema complesso come quello della normopatia traendo spunto da situazioni reali che la circondavano. Prima di prendere la sua macchina fotografica in mano, a Daniela piace leggere molti libri di psicologia scoprendo lati nascosti dell’essere umano che riesce ad evidenziare nella sua arte. Intervistarla è stato come entrare in uno dei suoi set.
Quando hai scattato la tua prima foto?
Diciamo che ho iniziato a fotografare circa nove anni fa con una macchina fotografica che uso ancora oggi. E’ la D500 e mi consente di essere contenta dei risultati. Quella per la fotografia è una passione che avevo sin da bambina ma non me ne rendevo conto. Quando andavo in vacanza in montagna con i miei genitori, mio padre portava la classica grossa cinepresa che una volta si usava. A me piaceva molto fare i filmini ed avevo appena sei anni. Col senno di poi mi sono resa conto che quello era già un segnale. Già allora ero molto attratta dalle fotografie.
Cosa fotografavi?
Inizialmente soprattutto volti, meno paesaggi, come si nota dagli scatti che ho esposto nella mia mostra. Volevo che le foto parlassero e ho scelto di associarle ad un tema sebbene ognuno, nel guardare le foto, dia una sua interpretazione.
Ritrai soprattutto soggetti femminili…
In realtà mi sarebbe piaciuto fotografare anche uomini anche se con le donne è più semplice perché puoi divertirti con i capelli, con il trucco.
Ti piace giocare con i materiali di riciclo?
Sì, la mia fotografia la utilizzo molto come metafora di vita, per spiegare mie sensazioni, ciò che provo. Ho utilizzato le buste per simboleggiare il pattume, il chiacchierio, le pseudo-convinzioni che creiamo attorno a noi. Oppure, la carta come emblema della semplicità, dell’essenziale. La lana, che ho definito vello, per me, invece, rappresenta la nostra condizione di non voler sentire.
Come reperisci questi materiali?
Allora, la lana me la sono fatta prestare da mia suocera, le buste sono quelle colorate utilizzate per la raccolta differenziata. Poi, c’è una foto in cui appare un abito antico che apparteneva alla nonna di mio marito. Ha circa settant’anni e mi piaceva l’idea di riportarlo in vita. Mi sono studiata un po’ i tessuti perché alcuni emergono maggiormente in fotografia come il velo e il pizzo.
La luce gioca in merito un ruolo importante, vero?
Assolutamente. Questo set l’ho creato in casa con i mezzi di cui disponevo. Ho studiato bene la luce perché uno degli aspetti che mi interessa maggiormente nella fotografia. Ho utilizzato quelle luci che muratori hanno nei cantieri, quindi non una luce prettamente fotografica ma faceva un bellissimo effetto. Poi ho creato, in altre foto, anche un’illuminazione dall’alto, a cono, in modo che non si espandesse perchè volevo questo tipo di effetto. Ovvero una luce che cadesse solo dall’alto. Luci ed ombre sono importantissime, per me sono anch’esse metafore di vita perché noi siamo fatti sia di luci che di ombre.
Come mai hai scelto di utilizzare sempre uno sfondo nero?
Inizialmente per comodità tecnica poiché possedevo già un telo nero, e poi volevo creare un effetto teatrale. Mi sono, infatti, studiata un po’ le foto di teatro che hanno un forte impatto. Ho provato a realizzare alcuni scatti a sfondo bianco ma non rendevano molto perché avevano una luce un po’ diffusa. Il nero, invece, mi consentiva di creare luci e ombre.
Le pose dei soggetti che ritrai sono pensate e immaginate da te prima o al momento dello scatto?
Alcune le ho ideate precedentemente anche se poi quando arrivavano le ragazze da fotografare non riuscivo a realizzare tutto come lo avevo immaginato. In alcune foto ho fatto io stessa da modella per mettermi nei loro panni e mi sono resa conto che è molto faticoso. Ad esempio, c’era una modella alla quale avevo chiesto di posare inclinata ma in quella posizione le faceva male la schiena. Non è stato affatto semplice. Avrei voluto inserire delle ballerine perché con loro puoi giocare un po’ di più nei movimenti e nelle pose.
In quanto tempo hai realizzato gli scatti in mostra?
Con la prima modella ho impiegato circa tre ore perché cambiavamo abito e posa. In alcuni casi creavo il vestito direttamente addosso alla ragazza e lo facevo in un’oretta. C’è, ad esempio, l’abito in cui appaiono le buste della raccolta differenziata che è stato creato attaccando i sacchetti colorati ad un mio vestito a tubino semplice che in foto non si vede. Ho impiegato tantissimo tempo.
Quindi ti piace creare abiti originali?
Sì, la moda è un’altra mia grande passione. A differenza delle sfilate in cui appaiono abiti reali da indossare, a me piace giocare con le situazioni creative, quasi teatrali. Se sapessi cucire realizzerei abiti anche per me stessa.
La preparazione di questa mostra quanto è durata?
Circa cinque mesi perchè ho dovuto studiare il tema, ho letto vari libri di psicologia a riguardo e poi ho scritto una relazione. Ho impiegato molto tempo per capire cosa fare con le varie modelle a seconda del loro fisico, dei capelli. Dedicavo una giornata per ciascuna di loro.
Anche la psicologia è un campo che ti affascina, quindi?
Si certo, sin dall’adolescenza. In particolare, leggendo un libro che s’intitola “Il potere del cervello quantico”, ho scoperto il tema della normopatia. In realtà è un argomento che si ritrova in vari scritti anche sotto altri nomi. Nel libro che ho citato non si parla esplicitamente di normopatia ma del fatto che siamo condizionati inconsciamente da tutto ciò che ci circonda. Questo aspetto mi affascina molto perché vuol dire spesso si fanno delle scelte non in base alla propria vita interiore, alla propria emotività. Molti miei amici si sono resi conto, ad un certo punto della loro vita, di aver sbagliato lavoro, di aver sbagliato compagna. E questo mi ha spinto ad affrontare con la mia mostra il tema della normopatia.
Quanto c’è di te nei tuoi scatti?
Questa mostra parla anche di me e non è stato facile perché esporsi non è semplice. C’è stato un periodo un po’ particolare della mia vita in cui ho avuto un momento di crollo e confrontandomi con altre persone, ho deciso di essere me stessa senza pensare a ciò che pensa la gente. Sono cresciuta in una famiglia in cui la psicologia era un tabù e non ero presa molto sul serio. Poi ad un certo punto ho deciso di seguire i miei ideali e i miei sogni. Proprio quando ho iniziato a farlo mi sono sentita anche più amata, forse proprio perché ero me stessa.
Quale altra tematica ti piacerebbe affrontare?
Un altro tema a cui avevo pensato era quello della dipendenza affettiva, in ogni tipo di rapporto, da quello di coppia a quello tra madre e figlio. In base a ciò che vedo in giro o che vivo in prima persona scelgo i temi da affrontare. Poi, mi piacerebbe fotografare gente con imperfezioni fisiche per lanciare un messaggio di denuncia contro l’ossessione per l’apparenza. Vorrei aiutare a superare certe situazioni magari attraverso la mia fotografia.
Come lo avresti trattato questo tema?
Sicuramente utilizzando corde e catene che danno l’idea di una persona che si sente chiusa, in prigione, in gabbia. La dipendenza affettiva è un cordone ombelicale che non riesci a staccare. Avrei dovuto inserire almeno due persone in ogni foto. Era molto complesso e alla fine ho optato per la normopatia. Sono entrambi temi che meritano di essere affrontati perché ignorati da molti.
Ti definisci un’autodidatta nel campo della fotografia?
Si, in questi otto anni ho imparato quasi tutto da sola. Mi piace molto la spontaneità, mi manca un po’ la tecnica. Ultimamente ho seguito un corso base anche se forse avrei dovuto optare per un corso di un livello più alto. Tuttavia, mi è servito molto perché incontrare giovani che si dedicano alla fotografia è stata una spinta per me.
Di lì è nata l’idea di esporre le tue foto in una mostra?
In realtà avevo sempre avuto l’idea di una mostra di quadri perché in passato dipingevo. Ultimamente ho smesso per una tendinite. Avevo iniziato a dipingere per casa mia perché amavo le tele grandi. Rappresentavo soprattutto alberi spogli utilizzando una tecnica di rilievo. Volevo ideare una mia tecnica. Mi piace rappresentare la realtà in chiave moderna. Volevo fare una mostra con questi dipinti ma mi sono un po’ scoraggiata per i problemi ai tendini. Quindi, poi mi sono dedicata soprattutto alla fotografia.
Il trucco sul viso delle modelle è opera tua?
Spesso si, faccio varie prove prima di arrivare a quello definitivo. Anche se mi sarebbe piaciuto creare più sfumature. Ci sono alcune foto in cui la modella è stata truccata da un’estetista professionista e credo si noti la differenza. A volte avrei voluto realizzare dei veri e propri disegni sui volti perché è un po’ come dipingere ma questo richiede molto tempo.
Quanto conta per te la postproduzione?
Non la utilizzo tantissimo per evitare l’effetto artificiale, voglio che i miei scatti siano naturali. Non ti nascondo, però, che modificare le foto successivamente mi diverte. C’è un famoso fotografo, Gastel, secondo il quale la post-produzione è come il secondo tempo di un film. Io ho cercato di non modificare molto le immagini originali, se non con piccoli ritocchi. Ad esempio c’è una foto in cui la modella aveva un tatuaggio sul polso che distraeva lo sguardo dell’osservatore e l’ho eliminato con la post-produzione.
In che modo suggerisci le espressioni che le modelle devono assumere?
Non è semplice, soprattutto all’inizio, riuscire a far capire alle modelle cosa vuoi da loro. Per questo ho voluto mettermi nei loro panni posando io stessa perché volevo entrare nella loro psicologia. Solo così sarei riuscita a spiegarmi, anche se non sempre ho ottenuto il risultato che speravo. In alcuni casi avrei voluto che si esprimessero in maniera più intensa.
Quali sentimenti volevi trasparissero dai loro volti?
Volevo che trasmettessero rabbia e tristezza perché l’argomento affrontato è una denuncia. Ho fatto leggere loro il tema perché dovevano immedesimarsi.
Se avessi scattato le foto in un ambiente esterno, quale sarebbe stato?
Le immagino in quei luoghi abbandonati, come casolari isolati con muri sgretolati. Sarebbe molto scenografico e si addice al tema.
Tra i fotografi internazionali, hai dei modelli di riferimento?
Seguo molto una fotografa che si chiama Rachel Neville da cui ho preso spunto. Lei ritrae ballerini utilizzando materiali di riciclo. Mi piace molto lei, anche nell’uso della luce. Studiando i set su youtube, era stata citata questa fotografa e mi ha incuriosito.
Come utilizzi il colore?
Generalmente sui volti utilizzo il banco e nero perché il colore distrae dai particolati del viso. Dipende, molto dal contesto: se ad esempio c’è un elemento colorato nell’ambiente che fotografo, magari utilizzo la foto a colori. Però in generale amo il bianco e nero.