di Alessandra Savino
Una passione per la scrittura nata fra i banchi di scuola, un’insegnate di Italiano con cui ha mosso i primi passi, la scoperta di un autore come Bontempelli ai tempi dell’Università. Questi i pilastri su cui Filippo Parisi sta costruendo una carriera letteraria che si prospetta prolifica ed intensa. Giovanissimo, all’età di soli 26 anni, ha pubblicato il primo libro e ne ha già ultimato un secondo, al momento inedito. Di entrambi ci parla in questa intervista che scava nella personalità e nel processo creativo dello scrittore, alla ricerca della forte componente autobiografica. Un esordio letterario che pone al centro il tema dell’incontro.
“Delle cose che furono. Nove incontri sospesi” rappresenta la tua prima esperienza come scrittore?
Questo è il mio primo lavoro letterario, pubblicato a dicembre 2018, ma in realtà rappresenta il culmine di un percorso di scrittura di tanti anni. Lo si intuisce leggendo. Io ho ventisei anni e da ragazzino ho coltivato il sogno di scrivere e ho sempre scritto tanto ma in maniera discontinua senza creare dei contenuti che letti mi sembrassero meritevoli di essere pubblicati. Due anni fa, nell’ottobre del 2017, mi ero appena laureato in lettere moderne e mi trovavo nel momento di passaggio dall’età universitario a quello che avrei voluto fare da grande. Poiché sentivo che la mia vita stava per cambiare, che c’erano delle scelte che sarebbero andate aldilà di ciò che avevo studiato. Ho pensato che quello fosse il momento di dare vita ad un contenitore per tutti questi racconti sparsi che rappresentavano il mio percorso attraverso diverse forme e generi letterari.
Come è nato questo libro e come si pone rispetto a quanto avevi prodotto in passato?
Raccogliendo, rileggendo e scegliendo tutto quello che avevo scritto mi è venuto quasi istintivamente la necessità di riscrivere questi racconti operando una forma di revisione. Quindi i racconti racchiudono storie diverse ma seguono un percorso ben preciso. Si parte con una traduzione di un romanzo francese dell’800 di un autore studiato all’università per poi passare dalla dimensione puramente letteraria del racconto decadente, un po’ gotico, alla narrazione di vicende reali della mia vita personale con racconti autobiografici.
I nove racconti sono incontri sospesi…
Si, sono nove frammenti sospesi perché la dimensione del racconto non ambisce alla completezza e organicità del romanzo ma punta a dare una visione, un barlume di apertura, una possibilità. L’incontro è una possibilità. Sono sospesi perché tutti i personaggi non riescono a trovare nell’incontro una prospettiva di senso rimanendo ancorati a se stessi e all’incapacità di trovare nell’altro un significato per quello che fanno. Come se fossero delle funzioni narrative adibite ad un meccanismo, quello della storia, in cui prevale più la personalità del narratore. C’è una forma di inautenticità nel personaggio stesso.
La narrazione è in prima o terza persona?
Alcuni sono racconti in terza persona, altri in prima persona. Poi ci sono dei dialoghi teatrali, dei dialoghi non teatrali ma privi di una cornice se non accompagnati da piccole didascalie, monologhi. La dialettica è quella fra il personaggio, il narratore e l’autore. Laddove quest’ultimo sono io che cerco di rappresentare la coscienza attuale che guarda a ciò che la voce narrante che si è costruita negli anni ha raccontato. C’è un rapporto non pacificato fra le ter parti che si contrappongono anche a me stesso poiché quando parlo di questo libro mi contrappongo al me stesso che lo ha scritto. Questo libro ha innescato in me un processo di cambiamento aldilà di quello che c’è nel libro. E’ come se avessi creato un contenitore per qualcosa che di me non ha più nulla.
Quanto c’è di autobiografico in questo libro?
Molto, soprattutto negli ultimi due racconti che riguardano nello specifico il mondo della scuola, la fine dell’adolescenza, il rapporto con i miei compagni di classe del liceo, la pizza finale della maturità con i professori, nonché il rapporto con la mia professoressa di Italiano del biennio. Lei è mancata qualche anno fa e ha rappresentato per me la figura che ha alimentato la mia voglia di scrivere. Le facevo leggere tutto ciò che scrivevo ascoltato tutte le sue critiche che col senno di poi mi hanno permesso di darle ragione.
Perché “Delle cose che furono”?
In realtà, il sottotitolo iniziale era “Racconti vecchi come nuovi” poiché mi dava l’idea di uno di quei cartelli che si vedono sulle bancarelle dell’usato. C’è il tema della riscrittura di ciò che è vecchio e viene rivisto come se fosse nuovo. E’ come se il libro rappresentasse la forma finale di un percorso terapeutico di pulizia di ciò che sono stato in passato.
Ogni storia rimanda al tema dell’incontro: tra questi nove ce n’è uno in particolare di cui vuoi parlare?
Sono legato a tutti questi racconti e se dovessi sceglierne uno su cui soffermarmi sceglierei “Alla stazione” che inizia come monologo scritto in una sorta di prosa ritmica. Mi è sempre piaciuto pensarlo recitato o raccontato a voce alta dando una cadenza alla scrittura. Mi piace pensare a ciò che scrivo come se avesse un ritmo. Forse deriva dalla mia formazione musicale. Quindi, il racconto parte da questa prosa ritmica per poi risolversi in un dialogo teatrale a tutti gli effetti con didascalie.
Di cosa parla? Chi sono i personaggi?
E’ la vicenda del narratore che alla stazione cerca una storia. C’è tutto un campionario di personaggi e possibili storie finchè il narratore non vede un uomo ed una donna. Immagina di intrecciare con loro una vicenda. Il narratore si fa da parte, diventa didascalia ed entrano in scena i due personaggi: Riccardo e Sofia. Apparentemente non si conoscono, in realtà ad un certo punto il lettore capisce che la loro storia è già iniziata tempo prima in un momento di cui non si sa nulla. Questi personaggi si riscoprono e Sofia avverte che è in corso una sorta di macchinazione. Come se stessero vivendo una vicenda a cui non erano destinati ed in cui si sentono coinvolti in una storia che la loro vita aveva evitato di intraprendere. Mentre Sofia è restia all’idea di lasciarsi coinvolgere, Riccardo è ancora innamorato dell’idea di questo amore.
Come mai sei legato a questo racconto?
Quando lo si legge si potrebbe pensare ai “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello. In realtà i personaggi di Pirandello chiedono all’autore di essere portati in scena, chiedono di avere un significato e di esprimere quel senso che si racchiude nell’atto in cui si sentono legati. Invece nel mio racconto i personaggi, in particolar modo Sofia, non vogliono che la storia sia portata a termine. Inconsciamente credo che più che da Pirandello io abbia tratto ispirazione inconsciamente da un autore su cui ho scritto la mia tesi di laurea: Massimo Bontempelli. Lui si ritrova in casa dei personaggi che si ribellano all’idea di essere stati raccontati e di rimanere ancorati ad una storia a cui non vogliono appartenere.
Nove racconti indipendenti…c’è una cornice che li tiene insieme?
Quest’opera pecca forse di eccessive cornici. C’è una premessa in cui si racconta la genesi del libro, una poesia che narra di quel momento di passaggio di crisi e rinuncia alla scrittura, e poi c’è una postilla successiva a tutti i racconti in cui una voce critica che fa un’analisi a posteriori. Quindi ci sono più chiavi di lettura che portano a fare dei collegamenti. Di per se i racconti sono autonomi ma si trovano all’interno di ognuno dei riferimenti fra uno e l’altro. E’ un gioco. Ad un certo punto c’è una frattura, in corrispondenza del racconto “Il pianista” in cui si avverte il passaggio dalla narrazione alla realtà. Entra in scena l’autore che dopo aver sbeffeggiato l’autore nega il finale del racconto per poi dar inizio alla parte autobiografica. E’ un percorso decostruttivo.
Qual è l’età dei tuoi personaggi?
Il secondo racconto presenta un quadro corale di personaggi dall’adolescenza fino all’età adulta. Quest’ultima è tuttavia comunque filtrata dallo sguardo di un adolescente. Ciò che non cambia è la sensibilità rispetto al tema. L’amore è sempre qualcosa di idealizzato, di impossibile. In questo senso i personaggi sono un po’ stilizzati, impossibilitati a cogliere il senso di qualcosa che non hanno ancora conosciuto poiché sono frutto di una mente adolescente. Oggi rileggendoli mi perdo un po’ nella forma ma riconosco in tutto quello che ho scritto i modelli, letterari, cinematografici, musicali che mi hanno trasmesso quei sentimenti.
Che rapporto hai con la musica?
Sono un grande amante della musica. Suonavo il pianoforte ed ho fatto parte di varie band come tastierista in passato. Ora mi sono avvicinato all’ukulele. E’ una passione che continuo a coltivare ma non mi definisco un musicista. Non è u caso che uno dei racconti a cui sono più legato è “Il pianista”.
Come immagini che venga letto il tuo libro?
Ho dato molte chiavi di lettura al pubblico. Dai riscontri che ho avuto, penso sia un libro che costi fatica. Soprattutto nei racconti iniziali richiede un po’ più di attenzione per la forma elaborata. Non credo ci sia un contesto preciso in cui leggerlo, io stesso l’ho riletto più volte senza trovare un luogo congeniale in cui fruirne da lettore.
Stai lavorando a qualcosa di nuovo al momento?
Si, ho appena inviato ad un’agenzia letteraria un altro volume, molto autobiografico che riflette esperienze recenti. Credo che l’autobiografia sia un nucleo forte da cui si possano tratte dei temi universali. Questo nuovo volume si compone di un lato A e un lato B che racchiudono racconti indipendenti in cui gli echi tra gli uni e gli altri divengono così forti da non poter immaginare le storie disgiunte fra loro.