di Alessandra Savino
Quando ogni superficie diviene un perfetto supporto per disegnare abiti, sfuggire ad un brillante futuro da couturier nell’alta moda sarebbe un grave errore. Un errore che Nicola Bonasia, giovane, brillante ed ambizioso designer pugliese non ha certamente commesso. Dai banchi e diari di scuola, le sue creazioni hanno spiccato il volo permettendogli di vivere esperienze uniche in grandi maison della moda internazionale nelle più importanti città del fashion. Bari –Roma il primo biglietto di sola andata, Roma-Milano il secondo che lo ha portato a lavorare per Dolce e Gabbana, Milano-Parigi il terzo e, probabilmente non l’ultimo. Sognando di prendere quell’aereo che lo porterà finalmente a New York, Nicola, dopo due anni al fianco di Monsieur Cardin in persona, oggi lavora per Chanel a Parigi. Nei suoi ritagli di tempo ha creato per Asteria Space l’Abito Componibile.
Ricordi quando hai disegnato per la prima volta un abito?
Ricordo che ero bambino, avrò avuto quattro anni. Mentre guardavo la televisione con i miei genitori sul divano mia madre, che da giovane disegnava, mi aiutava a disegnare su dei fogli da stampante. Disegnavo sempre figure femminili con abiti lunghissimi in posa. Questo è uno dei primi ricordi che ho, poi crescendo ho iniziato a disegnare ovunque. A casa sulla carta scottex, su tovaglioli di carta, anche al ristorante, poi anche sui diari e sui banchi a scuola.
Secondo te da dove nasce la tua passione per il mondo della moda?
Sono cresciuto con mia zia e mia nonna perché i miei genitori lavoravano, quindi, una volta uscito dall’asilo trascorrevo con loro il pomeriggio. Quando facevo i compiti o giocavo, le osservavo mentre cucivano e ricamavano. Le guardavo molto e così credo che quel mondo fatto di tessuti, aghi, forbici, merletti, sia entrato a far parte della mia vita in maniera totalmente inconsapevole. Crescendo ho iniziato a tagliere tessuti, a creare qualcosa adoperando colla e forbici. Pian piano è nata in me la voglia di capire gli abiti e quale fosse la loro costruzione. Ho voluto in qualche modo approfondire quelle percezioni che implicitamente avevo avuto da bambino.
Quando hai capito che quel ‘gioco’ poteva diventare il tuo lavoro?
Da piccolo era un gioco, al liceo talvolta non venivo preso sul serio quando disegnavo abiti sui diari di tutti. Forse tra il quarto e quinto superiore, quel periodo in cui iniziano a chiederti cosa vuoi fare da grande ho iniziato a capire che quella era la mia strada. Avevo frequentato un liceo scientifico, mi piacevano la fisica e la matematica, però disegnare abiti era la cosa che più di tutto mi appassionava. A quel punto mi sono reso conto che la scelta del proprio lavoro era qualcosa di importante e mi son detto che occorreva optare per qualcosa che mi entusiasmasse realmente. Sebbene nessuno nella mia famiglia lavorasse nel campo della moda, ho deciso di buttarmi in questo mondo.
Dopo aver iniziato gli studi a Bari hai fatto tappa prima a Roma e poi Milano: cosa hanno rappresentato per te queste città?
A Bari ho frequentato l’Università con un corso in moda ma completamente teorico, studiando la storia della moda e del costume, la chimica dei materiali, il giornalismo di moda. Ho avuto la possibilità di approfondire discipline legate a questo ambiente a livello teorico. Terminata l’Università, mi sono reso conto che avevo bisogno della pratica perché il mio desiderio era quello di imparare l’architettura, la costruzione di un abito. Non avevo le basi della sartoria, non avevo neanche mai fatto l’orlo ai pantaloni e mi sono messo a cercare delle scuole che potessero formarmi. Mi sono trasferito a Roma e ho iniziato a frequentare la Koefia, un’accademia internazionale d’alta moda e sartoria. Lì ho fatto corsi di modellistica iniziando ad avere un approccio più pratico al mondo della moda, alla sartoria, alla couture, lavorando prevalentemente su manichino. Lì ho imparato praticamente tutto, da come tenere un ago in mano, a come preparare un modello a manichino e come lavorarlo, tagliare il tessuto e realizzare l’abito. Diciamo che a Roma, mentre studiavo e apprendevo le basi teoriche della costruzione di un vestito, iniziavo anche a lavorare. La mattina frequentavo l’accademia e il pomeriggio lavoravo in un atelier vicino Piazza del Popolo. Mettevo in pratica nella boutique quello che apprendevo a scuola. Roma mi piaceva ma volevo vedere altre città, volevo approcciarmi ad una nuova cultura pur rimanendo sempre in Italia. Ho iniziato a guardare Milano dove ho fatto vari colloqui e mi è stato offerto uno stage presso Dolce e Gabbana. Lì sono rimasto tre anni e posso considerare quel periodo una maturazione dal punto di vista pratico. Ero nell’alta moda e ho sviluppato le mie esperienze ‘al millimetro’, si dice così in questo campo, ovvero con grande precisione. Milano è stata un’evoluzione dal punto di vista anche della mi persona.
A Milano disegnavi o realizzavi gli abiti?
Ho iniziato come sarto, quindi cucivo e facevo ritocchi e modifiche sugli abiti. Poi ho chiesto uno sviluppo della mia mansione poiché mi sentivo più creativo ed ero affascinato anche dalla parte modellistica, nonché di taglio. Quindi, richiesi una posizione da prototipista: rimanevo sempre in sartoria ma collaboravo con l’Ufficio Stile dove non disegnavo ma ricavavo dei modelli sulla base di prototipi che mi venivano portati. Per cui ritagliavo il tessuto, lo cucivo e preparavo il modello per la collezione.
Ma anche Milano ti stava stretta e sei volato a Parigi…
Diciamo che nella mia vita esiste una sorta di planning che prevede di fare tappa nelle maggiori città della moda. Dopo Roma e Milano, avevo previsto Parigi e ora il prossimo step sarebbe New York, ma non so ancora quando. Prima di partire per Parigi ho iniziato a mandare curriculum però nessuno mi rispondeva e ho deciso di andare sul posto. Mi ero preparato una lista di maison de couture e, una volta a Parigi, ho iniziato a girare. Un giorno avevo un appuntamento e mi sono ritrovato per caso davanti alla boutique di Pierre Cardin, che non avevo inserito nella mia agenda di appuntamenti sebbene l’avessi studiato e mi piaceva il suo stile. Allora pensai di entrare e chiedere un appuntamento.
Cosa ricordi di quel giorno?
Mi dissero che Monsieur Cardin non era lì ma che avrei potuto trovarlo dopo un’ora. Mi allontanai e fui richiamato dopo poco dalla boutique perché lui era arrivato. Ripresi la metropolitana e tornai in boutique dove incontrai e conobbi Pierre Cardin in persona. Era una di quelle situazioni difronte alle quali mai immagineresti di trovarti. Era surreale perché non solo lui stava guardando il mio curriculum e i miei disegni, ma ad un certo punto mi guardò e mi chiese: <<Lei può iniziare domani a lavorare? Anzi no, domani è venerdì, può venire lunedì?>>. Io ero totalmente incredulo e spiegai che vivevo a Milano. La sua risposta fu questa: <<Allora è bene che torni a Milani, dia le sue dimissioni e tra un mese venga qui a lavorare>>. È iniziata così l’avventura da Pierre Cardin, durata quasi due anni.
Rispetto al ruolo che rivestivi a Milano cosa è cambiato a Parigi?
Da Pierre Cardin ero stilista disegnatore, quindi lavoravo sulle collezioni e allo stesso tempo avevo un piccolo spazio per creare dei prototipi. Lui veniva regolarmente in atelier a disegnare e presentare i suoi progetti, quindi alle volte ci chiedeva di realizzare i suoi disegni. Per cui, oltre a disegnare le collezioni, leggevo i suoi disegni creando dei prototipi, ovvero tagliavamo le tele, preparavamo il tessuto, lo mettevamo su manichino. Poi era Monsieur Cardin a coordinare il tutto, sceglieva se proseguire e modificare qualcosa. Dunque, anche a Parigi ero disegnatore ma non a tutti gli effetti solo stilista perché continuavo a lavorare in atelier. Mi piaceva molto quello che facevo perché io mi sento più partecipe in questo modo dato che la mia passione è nella sartoria, nella creazione piuttosto che solo nel disegno.
Cosa di un maestro come Pierre Cardin ti porti dietro?
Sicuramente è stata un’esperienza che ricorderò per tutta la vita. Non tutti hanno la possibilità di lavorare con un’icona e un mito della moda. È stato come se avessi lavorato al fianco di Coco Chanel o Christian Dior. Monsieur Cardin ha iniziato con Christian Dior, era lì quando ha realizzato la sua prima collezione, ha conosciuto Coco Chanel e lavorato insieme a lei. È stato un vero onore esser al suo fianco. Inoltre, a livello umano, è una persona squisita. Era come un nonno per me, molto gentile, ci invitava a cena o pranzo, faceva regali. Una persona tranquilla e socievole, sebbene esigente sul piano professionale, come è giusto che sia. Quello che ricordo maggiormente e che ho rivelato anche a lui in persona, è l’immagine di Pierre Cardin che mi chiede di tagliare un quadrato da un tessuto e io lo faccio. Lui lo prende e con un solo spillo lo mette a manichino realizzando con quel solo spillo una manica perfetta. Tante volte mi chiedeva di tagliare un cerchio o un rettangolo di stoffa e con due o tre spilli lo metteva a manichino facendone un vestito incredibile. La sua è pura geometria in movimento, semplicità ed essenzialità. Questo è Monsieur Cardin.
Come è avvenuto l’incontro con la Maison Chanel?
Prima dell’estate avevo fatto vari colloqui e nell’attesa avevo deciso di aspettare settembre prima di rimettermi in discussione e prendere una decisione. Poi, però un giorno, mentre ero in autobus, mi ha chiamato la chef di Chanel dicendomi che aveva tanta voglia di lavorare con me. A quel punto mi sono detto che era un treno che andava preso, così mi sono licenziato da Cardin e ho iniziato il mio percorso da Chanel. Mi sono licenziato da Pierre Cardin dopo quasi due anni perché volevo fare nuove esperienze. Presso Chanel ho lasciato il ruolo di disegnatore stilista per dedicarmi alla sartoria, la mia vecchia passione, per accrescere le mie pratiche sartoriali.
Come ti stai trovando?
Abbastanza bene. Sono l’unico uomo dell’atelier, in centro, zona Madeleine, nei pressi della storica scalinata di Chanel. Lavoro in sartoria insieme ad un’equipe di sarti, modellisti e tagliatori, coloro che tagliano appunto i tessuti. Facciamo del flou. A Parigi gli atelier di sartoria sono classificati a seconda di cosa fanno. Ci sono quelli che realizzano capi con tessuti pesanti, come giacche o cappotti, mentre quelli che fanno creazioni flou, propongono capi leggeri, quindi, gonne, abiti in tessuti leggeri come cotone, velo ecc…
Ti manca disegnare?
Non più di tanto anche perché considero il disegno un modo per gettare giù le idee. Mi piace disegnare a livello di schizzo, il mio è un disegno rapido che mi serve per sviluppare, per creare. Disegno a casa, quando ne ho voglia. La mia passione reale è apprendere i segreti della couture, della sartoria.
Hai mai pensato ad una tua linea?
Diciamo che trent’anni sono un’età di mezzo e più volte mi sono chiesto cosa effettivamente vorrò fare della mia vita. Mi sono dato una risposta ipotizzando che magari fra cinque o sei anni mi piacerebbe sviluppare una mia linea. Sono però consapevole che per far questo bisogna avere un concetto, un’idea da proporre che al momento non ho tra le mani. Mi piacerebbe sviluppare una linea d’abbigliamento donna che abbia qualcosa da raccontare e che non sia qualcosa già vista. Finchè non avrò sviluppato il mio stile non posso proporlo agli altri. Prima voglio fare molta esperienza a livello formativo e professionale per arrivare a proporre un domani una mia linea.
L’Abito Componibile è il tuo primo progetto personale che hai esposto?
In realtà con l’accademia a Roma realizzavamo dei progetti per delle sfilate. Però mentre prima l’idea, il concetto, mi veniva proposto da qualcun altro, nel caso dell’abito componibile, sono partito da una mia idea. Trattandosi di un contesto artistico, volevo proporre qualcosa di attivo, di non statico. È un progetto in divenire che potrebbe anche non concludersi. Mentre lo progettavo, mi rendevo conto che avrei potuto aggiungere occhielli e bande all’infinito. Un concetto simile a quello dei Lego, ne metti uno sopra l’altro e il grattacielo cresce sempre più. Per l’abito componibile vale la stessa cosa.
Chi metteresti ai primi tre posti nella classifica dei grandi stilisti?
Dior al primo posto, al secondo Chanel, al terzo Balenciaga.
Quali sono i tuoi strumenti del mestiere?
Sicuramente metro, aghi, spilli, gesso, squadre, righe e forbici. Per disegnare utilizzo matita, penna stilo, possibilmente nera, fogli e due colori per le nuances, ovvero le sfumature.
Se pensi a te a New York, in quale maison ti immagini?
A New York mi immagino con la mia linea personale in un rooftop su Central Park.