di Alessandra Savino
A volte ci si trova dinnanzi ad opere d’arte che non potrebbero essere apprezzate soltanto con uno sguardo. Meriterebbero d’ essere toccate, scrutate, vissute, per potere essere comprese e interpretate pienamente. E’ questo il caso delle installazioni del pugliese Nino de Leo, un artista che narra storie trasformando il legno in meravigliose strutture, talvolta imponenti. Il pubblico è chiamato a scomporre e ricomporre le immagini ritratte da de Leo divenendo parte integrante del processo interpretativo dell’opera. Ad influenzarlo, certamente, ci hanno pensato gli studi universitari di Architettura, riconoscibili nell’ingegno che si cela dietro le sue creazioni. Attraverso quali procedimenti e con quali tempistiche realizzi le sue originali installazioni, de Leo lo ha raccontato in questa intervista.
Quando hai preso in mano per la prima volta i tuoi strumenti di lavoro?
C’è un momento in cui ho capito che ci fosse la possibilità di vivere di arte. Ti parlo, do molti anni fa, avevo quasi diciannove anni e partecipai ad un concorso d’arte. Si trattava di una mostra intitolata “Il Pendio”, che si teneva a Corato. Avevo appena terminato il Liceo Artistico e non avevo un’idea ben definita, ovvero non sapevo ancora bene se proseguire la carriera da artista o iscrivermi all’Università per studiare Architettura. Partecipai alla mostra anche per capire cosa fare della mia vita a quell’età e vinsi il primo premio che consisteva in ottocento cinquantamila lire. Erano gli anni ’90.
Con quale opera vincesti il concorso?
Si poteva partecipare con due che in caso di vincita sarebbero state esposte entrambe opere. La vincitrice si intitolava “Il contrabbassista”, un’opera emblematica che oggi si trova esposta all’interno del Comune di Corato. E’ emblematica perché se c’è qualcosa che porto avanti da tempo è lo studio dell’espressività del corpo. La realizzai in un’età in cui la figura femminile ci appare come una chimera, qualcosa che appare difficile da raggiungere per un uomo. In qualche modo ho sintetizzato la figura femminile in un contrabbasso nel quale si riflettono delle figure addormentate, porzioni di arti. Ho capito in quell’occasione che un quadro può raccontare tanto. Attraverso la pittura si può raccontare tanto, nel quadro ci sono spettatori che si riflettono. È come se l’opera si scomponesse rappresentando due realtà: quella reale del contrabbassista e quella virtuale dello spettatore che si riflette.
Come è avvenuto il passaggio dalla tela ad opere ‘scomposte’?
Ad un certo punto mi sono iscritto alla facoltà di Architettura e ho abbandonato per sei anni la pittura in maniera continuativa. Durante questo periodo ho però continuato a lavorare su commissione. Finchè, poi, ho fatto una scelta di cuore e ho voluto provare a vivere della pittura. Ho ripreso i pennelli in mano e ho iniziato a partecipare a delle estemporanee d’arte. Ho conosciuto un’associazione a Ruvo di Puglia che gestiva una falegnameria comunale. Avrei dovuto progettare complementi d’arredo e nel frattempo ho preso lezioni da un falegname. E’ stato un confronto interessante perché il rapporto con la maestranza mi permetteva di vivere il passaggio dal disegno all’esecuzione. Quindi applicando al legno le mie conoscenze della pittura ho proseguito il mio percorso.
Hai iniziato così a ‘costruire’ le tue opere…
A me piace realizzare delle vere e proprie macchine mobili. Le prime che ho realizzato erano di piccolo formato e le ho presentate nel 2002 nel Comune di Corato in occasione di un evento organizzato dall’associazione culturale Mnemò. Loro rivalutavano luoghi dimenticati attraverso delle estemporanee d’arte.
Abbiamo definito le tue opere installazioni perché non sono semplici dipinti su tela…come avviene la creazione?
Ogni opera ha una sua storia. Solitamente c’è un’idea che può anche essere puramente estetica, oppure può nascere da una lettura. Nel caso di “Variazioni pinocchiesche” tutto è nato da una lettura, ad esempio. A parte la suggestione cinematografica infantile del “Pinocchio” della Comencini, nel tempo ho letto il libro di Carmelo Bene. Ho capito che Pinocchio poteva racchiudere tanto e ho iniziato a lavorare sull’idea del doppio. Poi mia aveva colpito Il gioco del tangram, che caratterizza l’installazione. Si narra che un monaco avesse donato ad un giovane sacerdote un piatto in ceramica di forma quadrata chiedendogli di dipingere su di esso tutto ciò che vedeva girando per il mondo. Preso dall’entusiasmo, il ragazzo lascia cadere il piatto che si rompe in sette pezzi (di qui il nome ‘le sette pietre della saggezza’). Cercando di ricomporlo creava nuove figure e in questo modo riusciva a conoscere il mondo.
Cosa narra l’installazione “Variazioni Pinocchiesche”?
La mia intenzione era quella di raccontare Pinocchio. Ho scelto nove figure per nove tavole. Ho pensato subito a come rappresentare la nascita di Pinocchio. Una prima opzione era quella del soffio vitale traendo spunto dal racconto biblico secondo cui Dio, dopo aver creato l’uomo, gli dona la vita soffiandogli nelle narici. C’è una tavola, infatti, in cui ho disegnato Pinocchio che soffiando fa nascere il suo desiderio di diventare un bambino in carne ed ossa. L’altra opzione di nascita era quella dell’uovo che si rompe. Una figura che rompe l’uovo generando un’espulsione. Ho rappresentato entrambe le idee di nascita.
Ognuna di queste tavole ha un colore particolare…che ruolo ha nelle tue opere l’aspetto cromatico?
Mi piace l’idea di non definire uni spazio che per me viene definito da colore. E’ come se io volessi comunicare attraverso il colore un’emozione. Lavoro molto sui contrasti: mi capita di avere degli sfondi freddi e di rappresentare qualcosa di caldo. Il colore in sè contiene una forte carica emozionale. Quindi, è un qualcosa che deve dominare.
Quelle che realizzi sono costruzioni complesse…con quali tempistiche le porti a termine?
Sono piuttosto lunghe poiché prevedono il lavoro di falegnameria. Poi c’è il disegno che viene fatto in parte a matita e in parte con i gessi. C’è una fase in cui inizio a rappresentare una prima immagine. Se questa immagine si racconta attraverso il movimento, cerco il dinamismo ho bisogno di un secondo passaggio. Per fare ciò devo aspettare venti giorni affinchè il colore cristallizzi completamente in maniera naturale evitando di utilizzare gli additivi. E’ importante che il colore sia perfettamente asciutto perché questo mi permette di lavorare sulla sovrapposizione costruendo una seconda immagine che, qualora dovessi modificare e correggere, non andrebbe a rovinare quella sottostante. C’è sempre la ricerca di un’estetica e possono esserci delle immagini createsi che non mi convincono. Con questo processo ho la possibilità di asportare quelle macchie senza rovinare il disegno che c’è sotto. “Variazioni Pinocchiesche” l’ho realizzata fra il 2014 e 2016.
Un’installazione così complessa racchiude certamente delle riflessioni…
Per me appuntarsi un’idea significa poterla riprendere a distanza di tempo per arricchirla. Scrivere due righe mi consente di fermare un’idea e di riprenderla a distanza di mesi. Gli scritti finiscono per diventare, in occasione di una mostra, parte integrante dell’opera andando a creare delle tavole descrittive. Questo per me significa anche stabilire un cordone ombelicale fra me e il pubblico, entrare in contatto con esso attraverso la scrittura.