di Alessandra Savino
Una compagnia teatrale con un nome dal sapore orientale che rimanda al protagonista di un fumetto disegnato da Piergiorgio Meola. E’ lui la mente artistica che ha dato vita a questo progetto. E’ lui il primo sognatore che, nel 2015, ha fondato la compagnia dei ‘figli della luna’. Perché è questo uno dei significati della parola giapponese Okiko. Piergiorgio si è raccontato in una lunga intervista partendo dalle prime esperienze teatrali per approdare alla nascita della sua compagnia e la messa in scena di produzioni da lui scritte e dirette. In anteprima assoluta ha svelto anche qualche curiosità sul prossimo lavoro di Okiko The Drama Company insieme a Stefania Sannicandro che ne curerà la regia.
Quando è avvenuto il tuo incontro con il teatro?
Da piccolissimo, ho ricordi dell’asilo di me chiedo ai miei compagni di riprodurre le scene del cartone animato de “La Bella Addormentata nel bosco”. Ho sempre giocato con la recitazione e la comicità prendendo in giro programmi televisivi insieme alla mia mia migliore amica Stefania. Accendevamo lo stereo e registravamo tutto ciò che ci passava per la testa. Alle scuole elementari, poi, non vedevo l’ora che arrivassero le recite di fine anno, mentre alle medie c’è stato uno stop poiché nella scuola che frequentavo non si svolgevano queste manifestazioni. Con il liceo questa passione ha ripreso a vivere e di lì è nata anche da scoperta della scrittura di un testo teatrale.
E’ nato prima l’attore o il regista in te?
Tutto insieme. Da subito ho scritto, diretto e interpretato i miei drammi. Anche costumi, scene, musiche hanno sempre rappresentato parti di un unico insieme. Mi è venuto tutto naturale. Se devo esserti sincero, da come dirigevo ai tempi della scuola ad oggi non è cambiato molto, forse ora ho raggiunto una maturità intellettuale grazie a ciò che leggo, ai film e agli spettacoli visti, alle esperienze di vita. In tutti questi anni non mi sono mai sentito diverso, di base il mio metodo è sempre lo stesso. Osservo una persona, un colore, ascolto una canzone ed inizio a scrivere. Oppure, a volte sogno e nasce l’ispirazione per una storia.
Ricordi le tue prime esperienze teatrali?
All’interno del liceo c’era la mia professoressa di tedesco che aveva sempre avuto il sogno di dirigere una compagnia teatrale. Io e lei ci siamo subito trovati in sintonia e, insieme ad altri tre ragazzi ed una docente di francese, abbiamo creato un gruppo chiamato i The altro Jazz. Volevamo fare teatro unendo la musica jazz. E’ stato un bellissimo percorso che mi ha permesso di scoprire un tipo di teatro di cui non conoscevo l’esistenza: il teatro muto. Eravamo tutti manichini in scena e interpretavamo delle letture che l’altra professoressa recitava ed esplicava al pubblico. Di sottofondo, poi, c’era un gruppo jazz che suonava dal vivo. Ci siamo esibiti in molti teatri tra Bisceglie, Trani, Molfetta, Bitonto. Erano i primi anni 2000, altri tempi!
Poi, c’è stata una svolta…cosa è cambiato?
Ad un certo punto ho iniziato a sentire l’esigenza di parlare. Fare solo il manichino era diventato troppo pesante per me anche perché non mi dava alcuna retribuzione. Fui notato da una compagnia di Bitonto, durante la mia esibizione nell’ultimo recital di fine anno al liceo. Erano i Fatti d’Arte e con loro mi innamorai del fare teatro. Quindi per me era un sogno che si realizzava. Dal 2009 fino al 2013 sono stati la mia seconda casa. Con Raffaele Romita ho appreso tanto e ho dato anche il mio contributo poiché loro apprezzavano il fatto che io scrivessi. Con loro ho prodotto due opere da camera, “Tutto sui tacchi di tutti” e “La cucina impudica”. La prima è la storia di tre amiche che si incontrano parlando delle loro diverse problematiche. La seconda è di un’anonima francese del 1920 che narrava una lotta fra cocotte francesi a suon di ricette afrodisiache che si contendevano Gustave Flaubert. Con i Fatti d’Arte ho provato a recitare anche Shakespeare interpretando Puck in “Sogno di una notte di mezza estate”, ho lavorato con Elisa Barucchieri. Insomma, ho vissuto con loro molte esperienze che mi hanno arricchito senza farmi dimenticare chi fossi.
Cosa ti ha portato a lasciare quella compagnia?
Ad un tratto il percorso teatrale era diventato troppo famelico. Il dimenticarsi di chi si è che è tipico di questo mondo mi ha sempre spaventato. Per miei problemi personali ho dovuto lasciare la compagnia. Ho iniziato a sentirmi un po’ in prigione e sentivo che quella non era più la mia casa. Fui contattato da una compagnia amatoriale con cui mi sono divertito tanto. Loro mi hanno aiutato a risollevarmi da un brutto periodo personale e io, a mia volta, ho dato il mio contributo a ragazzi di quattordici anni che non si erano mai approcciati alla prosa. Ho scritto e diretto nuovi spettacoli in cui loro mi hanno dato tanto. Non mi è mai piaciuto fare la differenza fra l’attore amatoriale e il professionista perchè ritengo che il teatro sia del pubblico, fatto di gente che non ha bisogno solo di tecnica. Chi va a teatro non ci va solo per notare gli aspetti scenici. Molte commedie in vernacolo per me sono bellissime e mi sono divertito tanto nel vedere quelle quanto nell’assistere a spettacoli in prosa.
Quando hai sentito l’esigenza di una tua compagnia?
A metà del 2015 è nata l’idea. Volevo creare una mia realtà. Qualcosa che appartenesse a me e a chi dell’arte volesse fare il proprio mestiere. Avevo il ricordo dei miei genitori che mi avevano sempre suggerito di crearmi un mio percorso perché avere a che fare con gli altri non sempre ti porta ad essere apprezzato per il tuo voler fare. Alla fine ho deciso di intraprendere questo viaggio insieme alla mia amica Rosa Masellis. Tutto è partito così.
Come nasce il nome Okiko The Drama?
Okiko è il nome del personaggio di un mio fumetto che ho iniziato a disegnare all’età di diciassette anni. Il manga giapponese ha sempre fatto parte di me. Questo personaggio aveva originariamente un altro nome, Kioko, ma fuggiva dalla realtà per fuggire dagli affetti e per inseguire il proprio sogno cambiando identità. Assumeva così un nome che corrisponde all’anagramma di quello originario: Okiko. Era mio alter ego che prendeva una strada diversa. In questo fumetto disegnavo la malinconia di quello che sarebbe potuto succedere se avessi lasciato la mia vecchia vita per inseguire l’amore e l’arte. In realtà poi ho smesso di disegnare questo fumetto perché Okiko è rimasto qui, non è stato più necessario trasformarmi in qualcun altro. Ho deciso di rimanere qui accanto ai miei affetti inglobando quella parte malinconica che mi porta ad agire sempre nello stesso modo. Non ho bisogno di cambiare per fare quello che voglio. Okiko è dentro di me ed è una parola giapponese che ha tanti significati: meteora, imperatrice, ma soprattutto, figlio della luna. Questo è quello che abbiamo scelto per la compagnia perché ci sentiamo un po’ figli della luna, quindi, paladini dell’arte, del teatro, dell’amore. Così è nata Okiko.
Inizialmente eravate circa venti: tenere insieme e gestire una compagnia così numerosa è complesso…
Sì molto, è stato, quello, infatti, un periodo difficile. Okiko è per me una vocazione, un’indole. Amo molto la citazione tratta da un film di Fellini in cui Marcello Mastroianni dice: <<Saresti capace di ricominciare la tua vita scegliendo una cosa sola e renderla la ragione della tua vita?>>. E’ quello che noi abbiamo fatto. Non riuscirei ad intraprendere un nuovo percorso con qualcun altro perché è Okiko l’unica strada che voglio portare avanti nella mia vita. Oggi siamo in tutto una decina.
Quali sono state le prime produzioni di Okiko?
Allora una è stata realizzata in collaborazione con l’Accademia della Battaglia sul miracolo di Bitonto della Madonna. Noi abbiamo voluto sfatare questo miracolo attraverso degli studi che ci hanno portato a scoprire l’esistenza in quell’epoca di una donna dai facili costumi. Si racconta che questa donna si sia donata al generale. Tuttavia abbiamo voluto giocare sul malinteso e, quindi, abbiamo immaginato una delle dame che di notte si reca in campagna per pregare, viene vista da un soldato sotto la pioggia e scambiata per la Madonna. Questa produzione fu accolta molto bene da Bitonto anche perché alla fine abbiamo fatto calare la riproduzione del quadro in teatro e c’è stata la standing ovation. La prima vera produzione di Okiko per il pubblico è stata “Spectra”, uno spettacolo molto particolare che aveva a che fare con il noir, la morte, l’amore da me scritto e diretto. E’ stato un bellissimo esordio.
Il tuo teatro si rivolge anche ai più piccoli?
Certo, con “I Love. Se romeo e Giulietta fossero nati nel 2000” siamo arrivati nelle scuole. Questo spettacolo è un po’ una critica all’uso di facebook e del cellulare Per i più piccoli abbiamo partecipato anche all’iniziativa comunale “Il Giardino incantato”.
Si può trovare un fil rouge che unisce i personaggi delle tue opere?
Sono tutti personaggi che anche negli spettacoli meno realistici racchiudono sempre una verità. Hanno tutti a che fare con ciò che pensiamo ma abbiamo paura di dire. Io studio l’amore in tutte le sue sfaccettature. Anche dove c’è odio che per me è l’altra parte dell’amore. Quando odi e quando ami accadono le stesse cose, l’odio viene subito dopo l’amore. Anche dove c’è il più oscuro dei sentimenti c’è qualcosa che ti spinge ad essere così perché forse hai amato troppo.
Parliamo di “Bovary 2000”, una produzione numerosa: cosa comporta mettere in scena uno spettacolo con un cast così numeroso?
Siamo 8 in scena ed essere così tanti richiede la capacità di mantenere gli equilibri e tenere alto il morale dello spettacolo. Quando scrivi un testo teatrale e lo devi portare nel cuore di chi lo legge e deve interpretarlo è molto difficile. Tuttavia per Bovary questo aspetto non ha rappresentato una difficoltà molto profonda. E’ uno spettacolo che si presenta al pubblico leggero e provocante perché l’attore stesso ha la possibilità di stare sul palco e liberarsi di tutto quello che nella vita non farebbe.
Come riesci, in quanto regista, a fare questo?
Io porto semplicemente gli attori a scoprire un’indole che già hanno. E’ bello vedere come riescono a togliersi i paletti e per questa produzione ce n’erano tanti. Bisogna far capire che in quel momento sul palco c’è un personaggio che non corrisponde alla realtà. Sul palco siamo altro. Abbiamo voluto tentare una produzione osè, qualcosa che Okiko non aveva mai presentato al pubblico. Volevamo giocare con il pubblico.
Quale audace messaggio hai portato in scena?
C’era la presenza di Giuseppe Visaggi che interpretava Luis Baltini, un ragazzo travestito da donna. Il pubblico non si era accorto fosse un uomo finchè non veniva svelato in scena da un personaggio. Ho voluto portare in scena la situazione di tanta gente che si nasconde, reprime, maschera qualcosa che agli occhi altrui è invece evidente.
Una scelta coraggiosa…
In realtà non mi spaventava più di tanto, l’unico timore che avevo era che il ruolo affidato al ragazzo fosse troppo impegnativo perché non è semplice, da uomo, interpretare una donna in tutto e per tutto. Non si trattava di un travestito, una drag queen, a era la parte femminile di un uomo che doveva venir fuori. Io volevo che il pubblico lo sapesse ma che durante lo spettacolo se ne dimenticasse.
Che tipo di lavoro hai fatto con l’attore?
Per lui è stato molto stressante ma ne è valsa la pena. Doveva provare le scene sempre con i tacchi, lo rimproveravo ogni volta che vedevo gesti non femminili. Non è semplice far capire ad un uomo che deve sculettare e cambiare voce. Il risultato fu talmente realistico che alcune persone fra il pubblico non si resero conto che non era una donna ma un ragazzo. Quindi tutto quel lavoro ha funzionato. Anche chi sapeva che in scena ci fosse Giuseppe, durante lo spettacolo ha dimenticato che fosse lui finchè c’è stata la scena in cui si spoglia davanti al pubblico di questa maschera per far vedere l’anima di quel personaggio.
Che ruolo hanno le maschere in scena?
C’ è una donna che si è appena sposata ed arriva in questo teatro a luci rosse intenzionata a suicidarsi. Ad un certo punto, la punta di diamante di questo teatro, la riconosce e cerca di farle cambiare identità inventando un nuovo nome. Le maschere hanno il ruolo di nascondere la vera identità delle ragazze quando si esibiscono nel teatro a luci rosse e vengono tolte quando sono nei camerini. Non si tratta, però, di una maschera che copre bensì di un gioco con le identità. Non una maschera che copre ma che svela.
Che legame c’è con l’opera di Gustave Flaubert?
Prima ho scritto “Bovary 2000 “, poi ho letto “Madame Bovary” e mi sono reso conto che c’erano citazioni perfette per i vari momenti dello spettacolo e le ho inserite nel testo. C’è la presenza eterea della figura della Madame, madre dei due protagonisti maschili a capo della struttura del teatro, che fa citazioni di Madame Bovary. Quest’ultima non è presente nella storia ma c’è un personaggio femminile che si chiama Emma.
Uno spettacolo ricco da un punto di vista della scenografia e dei costumi…come li hai ricostruiti?
Ho sempre amato la Belle Époque, l’ambientazione del Moulin Rouge, le immagini ritratte da Toulouse-Lautrec. Quello è un periodo che mi attrae perché mi trasmette il senso di libertà. Mi sono sempre chiesto quanto quelle ballerine succinte si fossero divertite a giocare, anche con la morte perché poi c’era il rischio di contrarre malattie. Erano delle grandi artiste. I costumi sono stati immaginati e disegnati da me. Parto sempre da qualcosa che non è mai il definitivo. In questa produzioni poi abbiamo usato i colori di Okiko, ovvero, il rosso, il bianco e il nero.
Cosa rappresentano questi colori?
L’insieme di questi tre colori mi ha sempre affascinato. Un mezzo volto bianco con le labbra rosse e il neo nero suggerisce un’immagine noir, seducente, misterioso. E poi rimanda alla figura di una Geisha e, quindi, al Giappone.
Una passione per il mondo giapponese?
Sin da bambino guardavo i cartoni giapponesi e mi sono appassionato al Manga. Mi guardavo allo specchio e pensavo di essere giapponese. Non sono mai stato in Giappone, è un viaggio immaginario per me, vederlo dal vivo sarebbe un’esperienza troppo forte per me.
A questo punto ci vorrebbe una produzione sul Giappone…
In realtà esiste già e sarà il nostro cavallo di battaglia. Ho iniziato nel 2013 a scriverla e terminato nel 2016. Sarebbe una produzione con molti attori in scena, una scenografia imponente con grandi ventagli in scena. Non è ancora pronta per essere rappresentata, arriverà il suo momento.
Parliamo ora dell’ultima produzione di Okiko la cui regia è stata affidata a Stefania Sannicandro…Si tratta della tua prima regia, Stefania?
Si e devo dire che Piergiorgio mi ha aiutato molto. Io trovo difficoltà nel far capire agli attori come vorrei che interpretassero una scena. Non ci avevo mai pensato, è lui che me l’ha proposto e non riesco mai a dirgli di no. E’ un lavoro molto complesso che a volte mi spaventa.
Quando hai scritto questo spettacolo, Piergiorgio?
Quella che andrà in scena è una riscrittura. E’ un testo che ho iniziato a scrivere tra fine 2016 e inizi 2017. A fine 2017 e, successivamente, nel 2018, è stato riscritto. Quest’anno c’è stata l’ultima riscrittura e tra settembre e ottobre lo spettacolo sarà pronto per andare in scena.
Di cosa parlerà?
Affronteremo il tema della fobia in tute le sue sfaccettature, dall’omofobia alla paura della morte. Si tratta di una produzione che punta a far comprendere, attraverso una fiaba noir quello che in realtà siamo noi. Trattandosi di una fiaba abbiamo preferito non indicare il luogo e il tempo. I costumi punteranno molto sui colori. Non siamo rimasti nello stereotipo del male rappresentato solo dal nero. Abbiamo puntato sulla differenza tra l’eccentrico e l’elegante. La cattiveria sana ha a che fare con l’eleganza. La bontà è eccessiva, eccentrica.
E la scenografia ha a che fare con quella delle fiabe?
Le nostre scenografie sono minimal, poche strutture che suggeriscono all’immaginazione un ambiente. Molto importanti sono le luci. Basterebbe un colore per cambiare la scena. Le luci hanno un ruolo molto importante.
A questo punto possiamo svelare il titolo di questo spettacolo?
Si, la nuova produzione si intitolerà “Fiaba fobia”