“Madre Nostra”: Il documentario del reporter pugliese sull’agricoltura sociale
di Alessandra Savino
Affermava Carlo Levi che <<nel mondo dei contadini non si entra senza una chiave di magia>>. E qualcosa di magico, in effetti, sembra esserci nel documentario di Lorenzo Scaraggi, “Madre Nostra”, dedicato all’agricoltura sociale. La ‘madre’ in questione è la terra, l’unica capace, attraverso i suoi sani valori, di salvare un uomo da una vita ‘sbagliata’. Una terra non lontana, bensì molto più vicina di quanto si possa immaginare. Questa volta, infatti, la tenacia e la determinazione del reporter bitontino hanno percorso pochi chilometri a bordo dello storico Vostok100k, camper dell’82 protagonista delle avventure di Scaraggi ormai da tempo.
Tappe di questo nuovo ed intenso viaggio, sono state quattro realtà pugliesi all’interno delle quali Lorenzo si è immerso in punta di piedi, immedesimandosi e mimetizzandosi con esse. Storie di redenzione, di un riscatto ottenuto grazie all’agricoltura, raccontate attraverso le telecamere che Scaraggi ha saputo adoperare con quel tocco di magia di cui forse parlava Levi. Orti sociali, terre confiscate alla mafia, e comunità di recupero. Ambientazioni che non si addicono probabilmente ad una favola. Infatti, quelle raccontate dal giornalista bitontino non sono favole, ma vite vere, fatte di sofferenza, sacrificio, errori, droga, malavita. Tuttavia, sono storie che hanno avuto un lieto fine e lo hanno trovato proprio nel mondo contadino.
In cinquantadue minuti, i protagonisti di questo mondo, hanno ritratto se stessi non dinanzi all’obiettivo di una macchina da presa, bensì davanti agli occhi di un uomo, alla sua sensibilità ed alla capacità di sentire sulla propria pelle, di emozionarsi. La delicatezza con cui Lorenzo, da giornalista ma, in primo luogo, da essere umano capace di ascoltare quelle storie di riscatto, è stata la carta vincente. Risultato ne è un documentario, prodotto da Fondazione CON IL SUD e Apulia Film Commission attraverso il Social Film Fund Con il Sud, che nulla avrebbe da invidiare ad un’opera d’arte cinematografica. Fotografia perfetta nello sfruttare le sfumature del cielo nelle ore in cui un contadino lavora, musiche straordinariamente evocative, appositamente composte da Alberto Iovene. L’interpretazione dei personaggi, poi, non ha eguali perché qui non ci sono attori dietro le telecamere. Le emozioni, le lacrime, la soddisfazione per i risultati raggiunti, sono quelle vere e, se son venute fuori in maniera così spontanea e naturale, quello di Scaraggi non è solo un documentario, un reportage giornalistico, ma un racconto ‘magico’.
Le tappe del suo viaggio sono state “Il Trullo sociale” a San Michele Salentino (Brindisi), “Semi di vita” a Bari, “Pietra di scarto” a Cerignola (Foggia) e“Spazio Esse” a Loseto (Bari). Tutte con un filo conduttore: l’agricoltura come via per la redenzione. In questa intervista Lorenzo Scaraggi svela retroscena, aneddoti ed emozioni che hanno accompagnato la nuova avventura del Vostok100k.
Quando è nata l’idea di partecipare al bando?
Avevo presentato il progetto più di un anno e mezzo fa a questo bando che chiedeva di raccontare il Terzo Settore, un settore fortemente in evoluzione, seppur al momento in crisi. Io ho raccontato quattro realtà di agricoltura sociale. Avevo letto il bando e poiché stavo lavorando da un po’ di anni fra queste tematiche, ho deciso di scrivere questo documentario con la consulenza di Angelo Santoro che è anche uno dei protagonisti. È stato un classico viaggio Vostok attraverso quattro cooperative sociali alla ricerca di storie che dimostrano come l’agricoltura può redimere persone e luoghi cambiando le loro vite. Di qui il titolo “Madre Nostra”, in contrapposizione a Padre Nostro che è nei Cieli, la Madre è in terra, Lei è la terra. Quella terra che con la fatica, il sacrificio, la costanza, attraverso un ritorno ancestrale, contribuisce a dare una svolta alla storia di questa gente. Anche la vita dei luoghi può cambiare. Infatti, due delle quattro realtà che ho raccontato sono cooperative costruite su terre confiscate alla mafia. Dunque, terreni confiscati alla mafia diventano luogo di lavoro cambiando totalmente faccia e divenendo qualcosa di utile. Si tratta di cooperative dove si fa imprenditoria dell’agricoltura. Così un luogo che avrebbe fruttato soldi alla mafia si trasforma in luogo di utilità sociale.
Un viaggio intenso…
È stato un viaggio molto intenso perché avendo mantenuto sempre l’approccio da reporter, ho vissuto con questa gente, ho seguito il loro lavoro, ho aspettato che loro si fidassero. Ho preso il camper e sono stato ad abitare nei vari luoghi. A Spazio Esse sono rimasto una settimana poiché lì ho incontrato Alfonso e una persona con quel passato non si apre facilmente. E’ stata una bella esperienza, totalizzante come tutti i viaggi Vostok. Non c’era modo di staccare la spina, tornare a casa.
In quanto tempo hai girato il documentario?
Il tutto è durato un mese e mezzo. Essendo un documentario reportagistico, non c’era nulla di scritto. Passavo il tempo fra quelle persone, parlavo con loro e venivano fuori esperienze, emozioni, storie. Allora approfondivo. Ma quando accendevo la telecamera, ogni volta, non sapevo cosa sarebbe venuto fuori. Il mio metodo è quello di entrare in osmosi, in empatia con i protagonisti del documentario, persone con cui non avevo mai avuto nulla a che fare. L’unico che conoscevo era Angelo Santoro e quando l’ho intervistato mi sono commosso anche io perché la sua è una storia forte. Dare nuova vita a ventisei ettari di terra in stato di abbandono da trent’anni non è semplice, soprattutto a Valenzano, dove l’amministrazione è stata sciolta proprio per infiltrazioni mafiose. Questo è quello che ha fatto quest’uomo.
Cosa ha spinto queste persone a fare una scelta simile?
Prima di tutto, un grande senso del dovere nei confronti dell’altro. Oggi il Terzo Settore può dare un valore aggiunto al sistema capitalistico di produzione perché porta un guadagno emozionale, una ricaduta positiva per la società. Se ci pensiamo, una persona che dovrebbe stare in carcere ci costa circa trecento euro al giorno. Facendola lavorare, invece, in queste cooperative, si ha una borsa lavoro di quaranta/cinquanta euro. In questo modo, la collettività risparmia, si evita che una persona stia in carcere e, allo stesso tempo, invece, impara un mestiere, comprende il valore della fatica e della soddisfazione di piantare qualcosa e vederla crescere. Tutto questo parte da un senso di devozione, bene e affetto nei confronti dell’altro. Se non fai bene a te stesso non puoi fare be all’altro.
In quale altro modo queste cooperative apportano valore all’economia locale?
Tra Pietre di Scarto e Semi di Vita c’è un progetto che si chiama “Il pomo vero”. Propone la produzione di una passata di pomodoro etica che costa di più ma non ha una ricaduta sull’economia del caporalato e, soprattutto, è una forma di contrasto a quello che fanno le multinazionali realizzando aste al doppio ribasso, provocando così la svalutazione del nostro patrimonio agricolo.
Hai vissuto personalmente in queste cooperative durante le riprese: qual è la giornata tipo al loro interno?
La giornata è quella del contadino e in ogni realtà i ritmi sono differenti. Ad esempio, a Pietre di Scarto si iniziava a lavorare la mattina alle quattro e si finiva alle nove perché a Cerignola fa molto caldo. Il problema di chi gestisce queste cooperative è essere al tempo stesso contadino, imprenditore agricolo e dedicarsi al sociale. Il lavoro di queste persone non finisce nei campi. Si tratta però di cooperative che si aiutano fra di loro.
Come sono strutturate queste realtà?
Spazio Esse è la comunità più strutturata. La cosa è bella è che questa realtà è diretta da una persona che trent’anni fa era entrata in cooperativa come utente. Si è ripulito, si è redento e ha iniziato ad aiutare gli altri. Questo è un valore aggiunto. Parlando con queste persone mi sono reso conto che al 50% sono uomini sfortunati trovatisi in un ambiente dal quale è difficile sfuggire. Se la malavita riesce prima dello stato ad intercettare un adolescente vuol dire che non c’è una forza uguale e contraria che possa combattere la malavita. C’è un contadino che si è trovato a dover prestare il suo casolare per nascondere la droga. Si è trovato coinvolto e uscirne non è facile. Spazio Esse è una comunità terapeutica dove lavorano persone che dovrebbero stare in carcere ed ha, quindi, una doppia valenza: la riabilitazione della tossicodipendenza e l’apprendimento di un mestiere, quello del contadino. Qui ho intervistato Alfonso, ex capo piazza di spaccio di Scampia.
Cosa porta questa gente e venir fuori da situazioni così difficili?
Il lavoro, come dice Pietro Fragasso di Pietre di Scarto, è l’unica alternativa. La cultura del lavoro, l’opportunità offerta sono l’unica forza motrice che può contrastare la malavita. Se tu crei occasioni di lavoro, cinque su dieci uomini si salvano da una vita sbagliata. Ho incontrato persone di trentacinque anni che avevano trascorso quindici anni di carcere. Alfonso, uomo di quarantasette anni, ne ha vissuti trenta in cella. Uomini che hanno figli, piangono come bambini all’idea di non vederli crescere e si rendono conto che vale la pena lavorare piuttosto che entrare a fare parte del mondo della droga. Molto spesso loro sono i primi fruitori del servizio perché quando entri nel giro non ne esci e divieni il principale consumatore. La mafia e la droga sono realtà parallele alla nostra, ma che il più delle volte non vogliamo vedere. Mentre stavo girando il documentario e parlavo con la gente di terre confiscate alla mafia, la prima domanda che mi veniva fatta era: Ma sei stato in Sicilia? E si meravigliavano nel sentire che, invece, quelle situazioni le avevo trovate qui in Puglia, dietro casa. Molti ignorano l’esistenza qui della malavita che è compenetrata nei nostri sistemi economici.
Perché, secondo te, proprio il lavoro dei campi?
Perché ha qualcosa di ancestrale. C’è questo approccio fisico, materico. Il direttore di Spazio Esse, Mario Consales nel documentario spiega che il tossicodipendente vuole tutto e subito. L’agricoltura, invece, insegna la disciplina, la fatica, la pazienza di attendere il passare delle stagioni. Insegna che piantare un seme, significa prendersene cura giorno per giorno altrimenti il frutto non nascerà mai. Dunque la terra propone un mondo esattamente opposto a quello della droga. Alfonso dice di essere preso in giro dai suoi amici che lo vedono ‘ammazzarsi’ di lavoro. Ma è proprio questo aspetto che gli ha fatto capire il valore del lavoro.
Le nuove generazioni come stanno reagendo al documentario?
Nell’ambito di Land Art 50, c’è stato l’ultimo incontro che era incentrato sul tema ‘territorio e legalità’. A Monte Santangelo, dove c’è stato uno scioglimento dell’amministrazione per infiltrazioni mafiose, c’erano ben duecento cinquanta ragazzi che sono rimasti in silenzio a seguire la proiezione.
Che linguaggio hai utilizzato per raccontare queste storie?
Lo stesso del Vostok. Pensa che chi ha visto il documentario dice di riconoscere me ed il mio stile. Appaio anche io giornalista che intervisto però mi sono fatto molto da parte. Ci sono ma sono solo una spalla per le confidenze dei protagonisti.
Far parlare persone che hanno avuto vite difficili non è semplice…come ci sei riuscito?
L’esperienza del Vostok mi è servita tanto. È stato un lavoro che mi ha preso molto e da cui ora sto iniziando ad uscire. Un documentario di questo tipo è qualcosa che ti entra dentro e poi ti devi disintossicare dal tuo stesso lavoro. Per uno come me che non sopporta le ingiustizie non è facile. Non volevo fare la parte del giornalista che sa già quello che gli verrà raccontato. Ho utilizzato un linguaggio semplice. Ad ispirarmi sono stati i documentari che si facevano una volta, quelli in cui il giornalista scendeva per strada e si sporcava le mani. Il mio non è un lavoro da cinema ma più per la televisione e per il web. Volevo un documentario che parlasse alla gente con il loro linguaggio, volevo essere anche io parte di quelle emozioni. E mi sono commosso anche io.
A volte è scappata anche a te una lacrima?
Durante la conferenza stampa ciò che mi ha commosso è stato il fatto che Mario Consales ha portato sei ragazzi ex delinquenti. Uno di loro alla fine della conferenza si è alzato in piedi e piangendo ha preso il microfono dicendo che io ero diventato uno di loro e che li avevo trattati come persone ‘normali’. Quando ho girato il documentario, c’erano dei momenti in cui sceglievo di spegnere la telecamera e trascorrere del tempo con loro semplicemente a chiacchierare, a pranzare, a raccontarci barzellette. Era un modo per costruire la fiducia.
Come si colloca questa esperienza nell’ambito del Vostok100k?
Ne è stata un’evoluzione naturale che continuerà ad evolversi. Mi piacerebbe molto diventasse un format televisivo che racchiuda in se il viaggio, il giornalismo, il racconto. Ho diverse idee in cantiere circa eventuali nuove tematiche da affrontare. “Madre Nostra” non sarebbe ciò che è se prima non avessi fatto tutto ciò che ho fatto. È come se tutto fosse in viaggio durante il quale voltandomi indietro mi rendo conto che tutte le tappe percorse sono state esperienze vissute per arrivare fino a lì. Ciò che verrà dopo, a sua volta, porterà il segno di tutto questo.