Di Alessandra Savino
Raccontare la Shoah a colori si può. Lo ha dimostrato la compagnia Teatro delle Molliche attraverso lo spettacolo “Bar Mitzvah”, andato in scena il 27 gennaio presso il laboratorio urbano Rigenera di Palo del Colle, in replica il 31 gennaio al Teatro Comunale di Corato. Una scena coloratissima, quella proposta dall’attenta regia di Francesco Martinelli, che, solo nel finale, lascia il posto alla più cupa delle tonalità. Così come i sorrisi, pian piano, si spengono facendo spazio alla tristezza visibile su un unico volto. D’altra parte, che il sipario si aprisse su una vita colorata c’era da aspettarselo da una pièce teatrale con un simile titolo. “Bar Mitzvah – Diventare uomini al tempo della Shoah” allude ad un’espressione ebraica che significa ‘figlio del precetto’. Nello specifico, indica quel rito di passaggio attraverso cui i giovani ebrei raggiungono l’età della maturità, ovvero tredici anni per i maschi e dodici per le femmine. Dunque, protagonisti dello spettacolo, nato da un’idea di Michele Cuonzo e Alessandro De Benedittis, sono ragazzi e ragazze le cui problematiche adolescenziali si intrecciano alle brutture dell’Olocausto.
Quelle messe in scena non sono vite immaginarie, bensì storie vere di giovani ebrei che hanno lasciato una traccia indelebile della condizione di vittime fra le pagine dei loro diari. Vite in principio fatte di giornate colorate, come è giusto che sia per chi è poco più che un bambino e non ha paura della morte poiché non sa nemmeno cosa sia. Proprio come il piccolo protagonista del primo dei racconti che prendono vita nello spettacolo diretto da Martinelli, anche lui in scena con un’interpretazione impeccabile. Cos’erano questi giovani ebrei se non bambini intrappolati in una vita che li ha costretti a diventar uomini troppo presto? Un’ immagine perfettamente resa in “Bar Mitzvah” dallo stesso Martinelli, nei panni di un piccolo ebreo chiuso in un armadio per essere nascosto ai Nazisti. Di forte impatto scenico il contrasto fra l’imponente statura dell’attore e il ruolo da egli interpretato. Movimenti, linguaggio e tono di voce di un giovanissimo ebreo vengono fuori dal corpo di un adulto come se non vi fosse alcuna distinzione tra la vita di un uomo e quella di un bambino al tempo della Shoah. Se erano ebrei, quale fosse la loro età, infatti, poco importava poiché tutti sarebbero andati incontro ad unico e comune destino.
Ma lo spettacolo della compagnia pugliese non propone una scena funerea all’apertura del sipario. Quattro appendiabiti dotati di ruote e carichi di coloratissimi costumi a cura di Mariangela Graziano, di forte richiamo al cromatismo delle tele di Marc Chagall, appaiono agli occhi del pubblico. Scelta registica particolarmente originale, nonché funzionale ai fini di una rappresentazione dinamica e coinvolgente. A renderla tale, anche la recitazione degli altri interpreti al fianco di Martinelli: versatile nei vari ruoli interpretati Michele Cuonzo, esuberante Daniela De Palma, istrionico Pierdomenico Minafra, esplosiva e, talvolta ‘terrificante’, Marilena Piglionica. Inevitabile colonna sonora delle vite spezzate di questi adolescenti, musiche tipicamente ebraiche sulle quali gli appendiabiti in scena scorrono. Metafora di quei vagoni su cui venivano deportati gli ebrei, vagoni in partenza carichi di vita, di colore, al ritorno bui e vuoti. Così, le grucce, in principio piene di abiti colorati, si riempiono nel finale dello spettacolo di grandi buste nere, emblema di corpi ormai senza vita. Unica macchia di colore, nell’ultima scena, un mazzo di fiori che un uomo posa al centro del palco su una di quelle grucce, in memoria di ciò che non potrà mai essere dimenticato.