“La scala capovolta” è il nuovo disco del compositore veneziano Enrico Brion con l’AstroCo(s)micOrk, uscito lo scorso 20 maggio su tutte le piattaforme digitali, distribuito dall’Angapp Music. Liberamente ispirato a Le Cosmicomiche di Italo Calvino, il progetto discografico è stato concepito nel 2023, anno del centenario della nascita dello scrittore. In questa intervista, l’autore offre un approfondimento sul suo lavoro a partire dall’interessante ensemble da lui fondato.
Cos’è l’AstroCo(s)micOrk, da chi è composto e cosa racchiude il suo nome originale?
L’AstroCo(s)micOrk è la piccola orchestra di dieci elementi che ho concepito per questo disco. L’organico prevede tre sezioni da tre strumenti (Legni: flauto, clarinetto, fagotto. Ottoni: flicorno, trombone, tuba. Archi: violino, viola, violoncello) più batteria/percussioni. Mi sono reso conto che quando ho iniziato a scrivere il primo brano (Capriole per la Luna) e ho deciso l’organico, che poi avrebbe dato il colore a tutti i pezzi a venire, avevo in testa un suono, ma non avevo realizzato da dove venisse. Solo a posteriori ho capito che si trattava di Histoire du Soldat . L’organico che impiega Igor Stavinskij comprende due legni, due ottoni, due archi, e percussioni. Insomma, io non sono Stravinskij nemmeno nei miei sogni più audaci, per cui ho voluto (dovuto) fare tutto più in grande per compensare.
Il nome AstroCo(s)micOrk naturalmente gioca con l’idea del firmamento e ricorda per assonanza la raccolta di racconti ai quali mi sono liberamente ispirato. Ma l’idea del Cosmo mi riporta alla mente anche la Sun Ra Arkestra, l’orchestra intergalattica di Herman Poole Blount, l’autoproclamatosi extraterrestre venuto da Saturno. Un’orchestra viva, teatrale, piena di immaginazione. Ovviamente, quello della Sun Ra Arkestra era un suono completamente diverso, un’idea musicale per molti aspetti opposta a quella del mio disco, ma un po’ della stessa follia, insieme a una nota grottesca e comica, credo viva anche nella mia musica. O forse lo spero. Ad ogni modo, io non vengo da Saturno, ma da un piccolo paese in provincia di…Orione.
Da dove deriva la scelta del titolo “La scala capovolta” per il disco?
In
uno dei suoi racconti, Calvino immagina gli uomini salire con una scala sulla
Luna. Una volta passati dalla gravità dell’uno o dell’altro dei due mondi,
quello da cui provieni si rovescia e ciò che era sopra diventa sotto. La scala
che hai appena salito si capovolge. La scala è il ponte tra la condizione
terrena e le aspirazioni umane, vagheggiate ma irraggiungibili. E infatti,
questa salita diverrà presto impossibile, tanto che ci si potrebbe chiedere se
è davvero un ricordo o invece un anelito ancestrale.
La Scala Capovolta è il titolo di uno dei brani e l’ho scelto per
rappresentare tutto l’album.
In che modo Le Cosmicomiche di Calvino l’hanno ispirata nella composizione?
Beh, i racconti sono stati le suggestioni e il pretesto. Con ‘pretesto’ intendo che la musica non è mai una traduzione letterale di un oggetto altro. Può evocare, questo sì, ma, sempre si svincola dal punto di partenza dell’autore, e questa evocazione diventa necessariamente soggettiva. La musica prende la sua strada, vive un’altra vita, e risveglia in ciascuno (se la risveglia) la storia che si nasconde in ciascuno.
Come riesce a far dialogare jazz e musica classica ?
Sia la Classica che il Jazz sono categorie talmente ampie che, da una parte è bene delimitare il campo, dall’altra è inevitabile che si tocchino.
Il Jazz, in particolare, nasce e si sviluppa come contaminazione. Da sempre ci sono dentro i canti di lavoro, la musica creola, il blues, gli spirituals, le fanfare, il ragtime… E quando il jazz ha conquistato l’Europa, si è mescolato con la cosiddetta musica colta (definizione quantomeno discutibile, ma tant’è). La musica Classica (occidentale), poi, ha mille anni di storia, dall’alto medioevo a oggi. Comprende (per dire) i mottetti fiamminghi, i madrigali rinascimentali, le sinfonie di Beethoven e le sequenze di Berio.
La musica che più mi ha influenzato è quella del ‘900. Bartòk, Shostakovich, Prokofiev, il già citato Stravinskij, ma anche Ligeti e Dalla Piccola. Il solo pronunciare questi nomi naturalmente mi mette in soggezione, però sono stati importanti nella formazione della mia idea di suono e credo di aver assorbito molto dalla loro lezione.
Per rispondere alla domanda, infine, non credo si tratti più di far dialogare due mondi distanti, perché queste due realtà si sono già compenetrate da tempo. Chi fa musica in modo onesto sempre inevitabilmente esprime una sintesi delle proprie esperienze, cioè lo fa in modo naturale.
In particolare, nel mio disco, se cerchi il dondolio dello swing (che io amo moltissimo) rimarrai deluso. Ho messo invece molta attenzione alle trame e ai colori. Caratteristiche forse (ma se ne potrebbe parlare a lungo) mutuate dalla classica, ma che ormai sono entrate nella consuetudine di molti lavori jazz. Un po’ di nomi a caso: Bill Frisell, Maria Schneider, il grandissimo Wayne Shorter. Perfino Charlie Parker incise con un’orchestra d’archi. Voglio citare anche uno dei miei maestri, Massimo Morganti, che scrive e arrangia per i più disparati organici.
I musicisti che ho elencato (a parte Morganti al quale ho anche sottoposto i miei lavori per dei consigli) in realtà non hanno influenzato molto la mia musica, ma sono compositori che hanno operato delle fusioni fra mondi sonori.
Tornando al mio disco, se si percepisce del jazz, è per via di certe scelte armoniche qua e là, alcuni giochi poliritmici, e soprattutto per via del fraseggio e della pronuncia dei solisti che hanno indubbiamente un background jazzistico (Sean Lucariello, Beppe Costantini, l’eclettico Stefano Gajon; ma anche Giulio Tullio, sebbene il suo unico solo sia improntato nel free).
Cosa racconta la sua musica in questo disco?
Mi piace questa domanda, anche se fatico a rispondere. Mi piace perché implicitamente suggerisce che si tratti di una storia, ovvero che tutti i brani nel loro insieme costituiscano un’unità. Cosa che sottoscrivo, ma che purtroppo si perde nella fruizione della musica online, dove l’ascoltatore può scaricare il singolo brano, come fosse una hit (oh, magari uno dei pezzi lo diventasse!), o dove il flusso viene interrotto dalla pubblicità. Oltre alla distribuzione online, in accordo con l’etichetta (Angapp Music) ho stampato una piccola quantità di CD. Ecco, per dirne una, lì abbiamo potuto pensare a quale fosse il tempo giusto di attesa fra una traccia e l’altra. Che non è un tempo standardizzato (spesso sono due secondi), ma pensato di volta in volta a seconda del brano di provenienza e quello successivo. Quanto tempo voglio che risuoni l’ultima nota dentro l’ascoltatore prima di spazzarla via con il prossimo attacco? Sembrano quisquilie, ma sono i pesi e i bilanciamenti da orafo che fanno di un album un organismo unitario. Però sì, diventano sofismi inutili se frammentiamo la musica in tanti piccoli vasi non comunicanti da consumare.
E, per dirne un’altra, l’album contiene molti richiami interni, ovvero alcuni temi o elementi caratterizzanti di un brano tornano a distanza in un altro, più o meno trasformati, in un gioco di riflessi che vive solo nell’insieme.
Ma finora non ho risposto alla domanda. Anche perché è davvero difficile dire cosa racconta la mia musica.
Sono partito da alcune suggestioni de Le Cosmicomiche, da alcuni personaggi o alcune scene, ma poi le ragioni musicali prendono il sopravvento nel lavoro. Si tratta pur sempre di artigianato, perciò le soluzioni musicali sono spesso contenute nelle premesse, cioè nel materiale musicale di partenza. Non posso entrare nel tecnico, ma dico questo: una volta avviata la scrittura, è la musica stessa a guidarmi, a suggerirmi da che parte andare, non penso più all’ispirazione di partenza. Spesso è capitato anche che prima abbia scritto la musica e poi l’abbia accostata all’oggetto letterario.
Ad ogni modo, qualsiasi cosa l’ascoltatore possa sentire, spero non sia un motivetto, ma – appunto – una storia. Magari, come dicevo prima, la propria storia.
Corsa rappresenta per lei l’improvvisazione e cosa le permette di esprimere?
Si dice spesso che l’improvvisazione è una composizione estemporanea. Il che è verissimo. Ma una frase di Shoenberg mi ha colpito quando l’ho letta. Nel suo trattato Stile e Idea a un certo punto dice: “la composizione è un’improvvisazione lenta”. Ora, questo ribaltamento dei fattori mette in evidenza un aspetto della composizione per nulla scontato. Per quanto tu, compositore, pianifichi, stai comunque mettendo in atto scelte estemporanee e, soprattutto, arbitrarie. Stai improvvisando. Tutto questo per dire che improvvisazione e composizione sono due facce di una stessa medaglia.
In questo disco, però, ho scelto di propendere di più per l’improvvisazione lenta e meditata, ovvero per la composizione. In altre parole, in questo disco io non suono se non in due brevi momenti nei quali intervengo (non con il pianoforte, ma) con la melodica per produrmi, questa volta, in una composizione estemporanea (cioè nell’improvvisazione propriamente detta – quella in cui le note non sono scritte prima dell’esecuzione).
Ora, se non si fosse capito, sto giocando con citazioni e paroloni per fare l’azzeccagarbugli, però sto anche dicendo la verità. La libertà e la conseguente gioia che provo quando, ascoltando ciò che ho messo su carta, ciò che ho messo su carta mi sorprende (“ma come? L’hai scritto tu, come fa a sorprenderti? “- succede) è la stessa che provo quando con lo strumento sento di cavalcare l’onda tracciando linee sulle armonie di un pezzo. Cosa esprime il surfista quando taglia l’acqua con la sua tavola sfruttando al massimo le forze del mare e del vento? Un gesto atletico? E un gesto atletico è solo una successione di contrazioni e distensioni muscolari? Non lo so, e non saprei dire cosa sta esprimendo una donna che surfa o un uomo che improvvisa. Posso solo dire cosa si prova quando tutto scorre. Gioia.