di Maria Tisci
Due pulpiti rivolti verso il pubblico agli estremi del palco. Appena dietro, due file di sedie disposte in corrispondenza delle quinte, una di fronte all’altra, quasi a tracciare il perimetro di quello che sarà il fronte dello scontro tra i personaggi. Il fondale e le sedie sono neri, l’unico tocco di colore è una nebbiolina bianca e nulla più. La scenografia è senza tempo e non offre delle coordinate di spazio, infatti è dalle battute dei protagonisti che riconosciamo la bella Verona. Questo anonimato permette di porre al centro della drammaturgia i linguaggi. Prima di tutto i Capuleti parlano italiano, i Montecchi rumeno e solo pochi personaggi conoscono entrambe le lingue. Tra questi ultimi Giulietta, pur essendo italiana, sa parlare anche il rumeno, che le è stato insegnato dalla balia. Romeo invece è rumeno, prova a parlare in italiano per comunicare con Giulietta e per chiedere aiuto al Frate. In fine la balia parla entrambe le lingue, una per ragioni di nascita, l’altra di necessità. La sua storia risuona come familiare: lei è una donna di origini rumene che, per lavoro, vive in Italia svolgendo un’attività di cura domestica per una famiglia benestante. Tutti gli altri personaggi parlano la propria lingua originaria, fatta eccezione per alcuni momenti in cui prendono la parola dal pulpito con la versione originale del testo, in inglese, rivolgendosi direttamente al pubblico, senza tradurre. Per questa ragione, lo spettacolo va seguito con il supporto dei sottotitoli, che generano un iniziale senso di spaesamento, che si dissolve però dopo le prime battute. Sembra che il regista, Michelangelo Campanale, abbia voluto mettere la platea in una doppia condizione. La prima è ovviamente, quella di comprendere agevolmente una delle due fazioni, quella con cui ha in comune la lingua. La seconda è di non comprendere l’altro, lo straniero. Ciò che si manifesta in modo chiaro è che entrambe le famiglie sono componenti di un ingranaggio fatale che, quando si mette in moto, lascia una scia di morte dove prima c’era amore.
Lo spettatore rischia di perdersi nella traduzione, deve alternarsi tra la lettura dei sottotitoli e la visione di cosa succede in scena. Dunque, prima ancora di provare a giudicare le ragioni dell’altra famiglia, deve capire cosa sta dicendo. Proprio come nei conflitti dimenticati, mai risolti, in cui il malessere continua a serpeggiare in un’inquietante apparente normalità, il testo shakespeariano non racconta le origini del conflitto, ma ci porta in medias res all’interno di questo conflitto. La mescolanza degli elementi identitari ritorna in più scene, come quella del matrimonio in cui la scenografia, sempre essenziale, ricorda l’atmosfera di una chiesa ortodossa di qualche indeterminato paese dell’est Europa. Un ruolo centrale è affidato al personaggio del Frate che, in questa versione, prende anche le partiture del coro e “sposta” materialmente la scenografia del suo racconto. Si fa narratore, attore e macchinista della tragedia, si rivolge direttamente al pubblico, parla mostrando il testo, in nome di Shakespeare, in nome di Dio.
Scena dopo scena, la parola si fa azione e il lavoro corale e personale, condotto da ogni attore, è essenziale e preciso. Ogni personaggio non è solo un singolo, ma un membro di una famiglia e a sua volta parte del sistema che costruisce l’incastro fatale degli eventi. Gli attori sono quasi sempre tutti in scena, si muovono diventando un tutt’uno, danzando per poi smembrarsi e ritornare nei loro clan e poi ancora tornare a essere singoli personaggi. Si rivolgono direttamente al pubblico, sfondano la quarta parete, a volte sconfinano anche fisicamente nella platea, per coinvolgere gli spettatori.
C’è una catena di mani che con forza blocca le braccia, tira i capelli, afferra due corpi fino ad arrivare ai due volti puliti che si sfiorano in un bacio. Gli occhi sono chiusi, sono due amanti che ormai hanno deciso, contro ogni destino, contro ogni decisione avversa al loro desiderio. Questa è l’immagine che racchiude al meglio il lavoro, che ha il merito, a partire dalla materia senza tempo di un classico, di aver posto l’accento sulla comunità, sui conflitti tra comunità, sulle loro interazioni. Sui problemi della traduzione, sulla pigrizia dei singoli, sui pregiudizi insensati. Non perde mai di vista il singolo e l’insieme, muovendosi tra più linguaggi, la danza, la prosa e tra più lingue l’inglese, l’italiano e il rumeno. Forse per questo si tratta di una riflessione necessaria, soprattutto oggi che la corsa agli armamenti sembra l’unica soluzione e le guerre tra popoli sono particolarmente vicine ai nostri confini. Oggi che sembra impossibile non guardare al dolore di chi resta, di chi si trova, come i genitori e i parenti dei due giovani amanti, a dover assistere alla visione delle salme dei propri figli che sfilano via, per nessuna buona ragione.