Romanzi a Puntate

“Il DIARIO DELLA FRAGILITÀ

PASTA FROLLA, VANIGLIA E CANNELLA

di Emanuela Rinaldi

1.

“Specchio, specchio delle mie brame, non mi interessa sapere chi è la più bella del reame, voglio solo chiederti se mai tornerò quella bimba dalle guance paffute e carnose, dalle cosce floride e teneramente prosperose. Voglio chiederti, mio severo giudice di bellezza, tanto limpido e lucente, se mai tornerò ad essere felice, serena, spensieratamente gioiosa. Voglio chiederti se mai tornerò ad avere una vita, una di quelle vite da incorniciare, una di quelle vite da raccontare, scrivere, celebrare”.
Che maleducata, perdonerete senz’altro la mia innocente ed ingenua distrazione che mi ha portato a presentarvi dapprima i miei intimi pensieri piuttosto che a porgervi virtualmente la mia mano nell’atto di presentarmi umilmente e rispettosamente.
Comunque senza dilungarmi troppo, rischiando miseramente di annoiarvi e infastidirvi, mi presento: sono Emanuela, una comune fanciulla di diciassette anni, non troppo sicura di sé, come in realtà cerco inefficacemente di dimostrare, con tanti intensi e spesso disperati sogni celati nel cassetto.

Un giorno, senza una nitida, effettiva e precisa collocazione spazio-temporale, ricordo vagamente d’aver udito una voce soave, a me piuttosto estranea e sconosciuta, che mi invitava a paralizzare momentaneamente i miei frettolosi e fuggevoli pensieri per potermi dedicare ad un’unica immagine mentale, in grado di ritrarmi assecondando amorevolmente i miei desideri e la mia volontà. Insomma dovevo immaginare una me diversa dalla vera me, dovevo immaginare una me più simile ad un oggetto decisamente esclusivo, incomparabilmente inconfondibile ed indiscutibilmente unico. E sapete quale peculiare oggetto la mia mente ha preso in considerazione? Beh, un modestissimo candido diario dalle pagine infinite ed irrimediabilmente indelebili.
Si, amici, lettori, mi sentivo davvero come uno di quei diari che i bimbi cominciano a scarabocchiare sin dai primi anni di vita, che gli adolescenti compongono e “tessono” premurosamente durante i loro giovani ed inesperti giorni, uno di quei diari che gli adulti poi rileggono davanti ad una tazza di buon thè, in veranda, abbandonandosi delicatamente al proprio inestimabile e commovente passato. Mi sentivo proprio uno di quei diari fatti di carta, ma non solo: fatti di intensi sentimenti, coinvolgenti parole ed affascinanti emozioni; uno di quei diari apparentemente monocromatici, ma che in realtà racchiudono in sé e miscelano perfettamente una moltitudine di colori vividi, gioiosi e splendenti; uno di quei diari tanto rigidi e severi all’esterno, ma così fragili e friabili al loro interno.

E finalmente, adesso, dopo mesi, sono pronta a raccontare, a raccontarmi. Sono pronta a confidare tutto ciò che ha obbligato crudelmente e spietatamente la mia anima a marcire, a decomporsi.
E allora alla prossima pagina miei amici, miei fedeli ascoltatori e preziosi confidenti.

2.

Stamani avverto l’insistente pressione dei ricordi sulla pelle, percepisco il loro rilevante e significativo peso sulle gracili ed indifese spalle, riconosco e colgo inevitabilmente la loro presenza e il loro indomabile desiderio di emergere, di affiorare. Non riesco a controllarli, fallisco miseramente ogni qual volta io ci provi: e allora decido di deporre ogni illusoria e inefficace arma ed abbandonarmi teneramente e flebilmente alla loro essenza.
Chiudo gli occhi stanchi e spossati, mi lascio pervadere dapprima da un’aria piuttosto fresca e quasi gelida per poi farmi dolcemente intiepidire ed avvolgere da un’aria calda che fuoriesce lentamente dalle mie labbra. Non sono più dov’ero, non è più il presente il mio tempo, non sento più i rumori assordanti della logorante quotidianità: sprofondo intenzionalmente in una dimensione del passato che riporta a galla tanta atroce sofferenza, tanto amaro dolore e tante torbide lacrime. Riesco a vedere un corpo esile, scarno, pallido dinnanzi allo specchio, ancora una volta. Riesco a vedere un viso cereo, distrutto, evidentemente denutrito.

Riesco a vedere delle gambe tanto magre e scheletrite, delle braccia che purtroppo non sono più braccia. E poi comincio follemente a contare le ossa del mio petto, delle mie costole come fossero essenziali testimonianze di una vittoria tanto sudata e profondamente attesa. Comunque cerco di sorridere dinnanzi a quella trasparente superficie, ma vengo crudelmente e inaspettatamente colta da un pianto debole, “esanime” e tanto delicato. Sento il viso inumidito, vorticosamente percorso da questi docili ruscelli, affluenti, corsi d’acqua. E con le mani cerco di scuotermi la testa indolenzita, assente, pesante; e cerco di stropicciarmi gli occhi ancora dolenti ed irrimediabilmente esausti.
Emanuela sono le 7.00 di mattina; c’è scuola oggi, scendi a fare colazione. Ti aspetto”. Ecco la voce di mia madre, apparentemente tanto tranquilla e rilassata, ma intimamente così angosciata e timorosa, così spaventata e consapevole della battaglia che sarebbe esplosa di lì a poco, squarciando la bellezza di una profumata e familiare colazione invernale.

Scendo le scale timorosa, impaurita, cosciente della delusione e dell’amarezza che avrei provocato, rifiutando categoricamente e ostinatamente ogni cibo o bevanda che colorava ed imbandiva la tavola della calda sala da pranzo.
Non ho fame mamma” trovo il coraggio di dire.
Non importa, il tuo corpo ne ha bisogno; è come una pianta che sta morendo e necessita tremendamente d’un po’ d’acqua per continuare a respirare, per continuare a vedere la luce del sole brillare, per continuare a vivere. Pensaci amore mio, non lasciarti morire, ostinati, contrasta quella voce malefica e tanto nociva che vuole soltanto farti sprofondare in un abisso oscuro e silenziosamente assordante, quella voce tanto malsana che vuole farti impazzire, che vuole farti delirare solo per poter prendere il controllo della tua amata e ormai un po’ dimenticata giovinezza”.
Una parte di me sapeva quanto giuste e straordinariamente meravigliose fossero quelle amabili parole, sapeva quanto quella comune colazione fosse indispensabile alla mia sopravvivenza. Ma ormai il mio cervello era marchiato, predominato, intaccato da un feroce parassita che non permetteva di nutrirmi e che però, allo stesso tempo, sapeva di me adeguatamente nutrirsi.

Vado via da quelle nemiche e per me “malevoli” tentazioni, giro le spalle a quella voce materna, a quel viso straziato, abbasso lo sguardo e scappo in camera: “devo andare a scuola adesso” penso, nonostante vorrei soltanto poter sprofondare fra le gelide lenzuola e il soffice cuscino del mio accogliente e confortante letto.
Mentre mi vesto, stringendo fortemente la cinta dei larghi e cadenti jeans, mi avvicino alla porta e ascolto, ascolto la voce affranta e addolorata di mia madre che sussurra a mia sorella e a mio padre quanto il suo cuore si senta in colpa, impotente e fatalmente incapace dinnanzi a cotanta crudeltà, ferocia che sapeva liberamente divorarsi sua figlia.
E riuscivo a toccare con mano la loro paura imminente, il loro timore inconsolabile; tuttavia riuscivo a distinguere, in tutta quella oscurità, il loro amore eterno, affranto e disperato. Ed avevo paura, non per me, ma paura per loro, per le loro belle ed innocenti anime frastornate ingiustamente da un’atrocità di cui ero pienamente colpevole, da un’atrocità che non stava sbranando solo il mio mortale ed inutile corpo, ma che piuttosto ormai frantumava anche le loro preziose e disarmanti vite. Scendo frettolosamente le scale che adesso sembrano così ripide e pericolanti, mi rifugio in un ampio e soffice piumino nero, alzo il cappuccio tanto difensivo quanto futile dato il cielo soleggiato e limpido di oggi e la temperatura piuttosto mite ed avvolgente, ed abbandono malinconicamente quelle mura possenti ed amorevoli capaci di accudirmi ed ammantarmi teneramente.
Sono le 7.45, osservo smarrita e impaurita tutto ciò che mi circonda, tutto ciò che satura i miei occhi dolenti e sazia la mia mente provata, stremata e continuamente tormentata. Focalizzo il timido sguardo sulle automobili colorate ancora abbellite soavemente dalla brina che la notte ha portato maternamente con sé, automobili fuggevoli e competitive che svelano a tratti la natura aspra e miseramente litigiosa degli uomini, automobili capaci di infrangere e fendere profondamente l’aria invisibile e quasi impercettibile. Poi, mentre alzo istintivamente e impulsivamente il passo indolenzito ed ancora assonnato, mi concentro intenzionalmente su di un gruppetto di ragazzi miei coetanei che mi precedono: “quanto sono belli ed ammirevoli i loro sorrisi, quanto è dolce e radiosa la loro ingenua complicità, quanto è lieta e raggiante la loro acerba e tanto fiduciosa voglia di vivere”. penso cupamente e sconsolatamente. Penso a me, alla mia giovinezza compromessa e parzialmente incenerita, alla mia giovinezza avvilita e irreversibilmente desolata, alla mia giovinezza che tanto giovinezza ormai non lo è più.

Proseguo ancora ed eccomi giunta dinnanzi all’ampio ed antico ingresso della mia scuola.
Preparo efficacemente il mio fragile corpo con adeguati ed intensi respiri e poi decido coraggiosamente di entrare, contrastando eroicamente tutte le mie opprimenti sofferenze, tutti i miei soffocanti ed infernali pensieri.
Scappo in classe, sono già in ritardo; tolgo forzatamente il cappuccio e lancio debolmente la cartella sul pavimento, gravemente provata e stremata a causa del suo rilevante peso. Mi siedo, evitando ogni amichevole e ridente sguardo, e mi isolo delicatamente. “Ho paura, paura di tutta questa innocente allegria, di tutta questa per me incomprensibile ilarità, di tutta questa piacevole ma al contempo straziante e dolorosa felicità. Ho paura e voglio andar via, ho paura e voglio volare via”.
Comincio così a infradiciare il viso e la soffice felpa con le intense e vigorose lacrime che non riesco ormai più a controllare. Comincio così a soffocare, a implodere, ad impazzire inumanamente. Comincio così a deperire gradualmente e candidamente.
Sento una voce lontana che mi parla, che mi scuote; ma io non so più reagire, non riesco più a reagire. E poi di colpo, un vorticoso buco nero mi accoglie fra le sue possenti ed ingannevoli braccia, e mi stringe, mi stringe e ancora mi stringe fino a farmi intenzionalmente sparire da questo mondo.
Qualche istante dopo però riconosco la voce vellutata di mio padre, il suo profumo carezzevole e le sue mani soffici ed estremamente delicate. “È qui per me, è qui per non lasciarmi innocuamente morire, per salvarmi da un divorante ed tanto infernale nemico”.
Adesso sento e percepisco nuovamente la realtà, entro in contatto con le superfici circostanti, le disorientate sensazioni e gli immancabili seppur smarriti pensieri.
Salgo in auto, allaccio la cintura, scaravento bruscamente la testa contro il cristallino finestrino e poi mi addormento dolcemente, concedendo alla mia anima un meritato, necessario e tanto invocato risposo.

3.

Sento l’auto spegnersi bruscamente, interrompere frettolosamente il suo corso. Poi, all’improvviso, percepisco la superficie tanto familiare e rassicurante del corpo di mio padre, che teneramente decide di stringermi tra le sue possenti ed avvolgenti braccia, che delicatamente decide di sollevarmi e portarmi in casa.
L’aria ha un odore delizioso e piuttosto dolciastro, un odore tanto soave ed armonioso quanto inebriante ed intimamente ardente. Riconosco quel profumo aromatico seppur profondamente frastornata ed atrocemente intontita: “sa di buono, e a tratti sa anche della mia amata torta di mele, dei miei adorati e ormai banditi pancakes e del mio speziato e fragrante latte di nocciola. Sa d’incontrastabile ed inguaribile amore, sa di timida ed impaurita fiducia, sa di travolgente ed irredimibile bellezza, sa di preziosa ed unicamente meravigliosa vita”.
Con qualche incerto ed instabile passo raggiungo il divano, mi ci stendo debolmente sopra, tediata da una estrema e debilitante fragilità, e comincio ad osservare dettagliatamente le uniche ed irripetibili decorazioni suscitate dai raggi del sole che penetrano ostinatamente dalle esili fessure delle lignee ed opprimenti persiane; osservo poi le pareti levigate e perfettamente smerigliate, mi lascio incantare ed affasciare dal loro nobile e sobrio colore; e tutto mi sembra etereo, platonico, irreale: “sono ancora viva? O è solo la mia sfibrata e dolente anima a vagare impercettibilmente in questa amorevole e tenebrosa stanza?” mi domando.

E subito, quasi in risposta al mio bizzarro ma giustificato quesito, la voce soffice e melodiosa di mia sorella rallegra l’ambiente cupo e tristemente desolato. Sussurra qualcosa di facile intuizione a mio padre e poi corre da me, corre a controllore il mio gracile e cagionevole respiro, corre a controllare il mio esanime e svigorito corpo, la mia inerte e consumata anima. Mi sfiora prudentemente, quasi terrorizzata dalla paura di farmi male, socchiude poi gli occhi per evadere da quella feroce realtà, e percorre mnemonicamente ogni singolo tratto del mio viso con i morbidi polpastrelli, come stesse dipingendo a mani nude un valoroso e stupefacente quadro. Distinguo esattamente ogni suo respiro affannato, inspira ed espira soavemente: cerca così di gestire con grande maestria ed abile capacità un cuore esageratamente palpitante e smodatamente trepidante; cerca così di domare sapientemente un animo irrequieto e tormentosamente esuberante; cerca così di placare razionalmente i suoi innumerevoli ed anarchici pensieri.
Vorrebbe svegliarmi, lo intuisco, ma resta immobile col fiato ansimante e torbidamente inquieto sul mio collo, come volesse concedermi un’assoluta e totalizzante tregua, come volesse liberarmi di ogni faticosa ed esasperante responsabilità, come volesse finalmente poter respirare per me.
Non lasciarmi la mano, piccolina mia; non abbandonare questa giovane vita per cui io darei la vita.” bisbiglia poi fragilmente.

4.

Quando mi risveglio, cosciente d’essere sprofondata in un sonno possessivo e geloso, sento un brontolio fastidioso che comincia a tormentare e molestare insistentemente il mio stomaco. Cerco di ignorarlo faticosamente, di sopprimerlo miseramente, di ingannarlo codardamente; e pizzico intensamente il ventre scarno come volessi rimproverarlo ed accusarlo iniquamente per la sua naturale e tanto spontanea reazione, per il suo umano e comprensibile desiderio di nutrirsi.
Sospendo il respiro per qualche breve e fugace istante e cerco di scongiurare, di scansare, di esorcizzare quell’angosciante e soffocante pericolo; cerco di allontanare, di esiliare quel violento e costante nemico, quel diabolico e perfido strozzino.
Non mangerò, neppur oggi, neppur adesso. Non merito un simile e meravigliosamente appagante premio.”
Mi alzo faticosamente dal piumoso e carezzevole divano, salgo le scale, per me sempre instabili e precarie, e raggiungo silenziosamente l’ampia e lucente finestra della mia camera: stropiccio gli occhi indolenziti e ancora provati dal buio tanto greve e denso delle ore precedenti, allungo le braccia verso l’alto come volessi follemente prendere il volo e distendo la schiena curva e timidamente piegata. Guardo il cielo limpido e cristallino che nella sua estenuante bellezza pare così desolato ed assente, che nella sua affascinante lucentezza pare così torbido ed impuro, che nel suo sbalorditivo e folgorante splendore pare così incerto ed insicuro. E mentre mi perdo completamente in questa celestiale ed immacolata dimensione, delle mani piuttosto affusolate, dalle dita snelle e tanto soffici, mi coprono gli occhi, quasi spaventandoli, mi impediscono istantaneamente la visuale, mi riportano coscientemente alla vita reale.

Comincio a palpare quelle mani tenere ed ingenue, sento la loro pelle levigata e innocente e subito riconosco il loro gentile possessore.
Mi sei mancato amore mio” dico, stringendo i suoi polsi rigidi e carnosi. Mi giro, spalanco le palpebre stanche e lo guardo: bello come sempre, con gli occhi verdi pieni di vita, la pelle biancastra e leggermente rosea lungo le guance floride e rigogliose; bello come sempre, con le spalle alte e vittoriose, le braccia scolpite e perfettamente intagliate, il collo fiero ed amabilmente superbo. Penso a quanto rincuorante sia il suo inconfondibile odore, a quanto rassicurante sia il suo ardente sguardo, a quanto confortante sia il suo candido e genuino sorriso. “È la mia anima gemella, è l’anima che l’invisibile ed indistruttibile filo rosso del destino ha legato all’esile mignolo della mia mano sinistra” penso inconsciamente mentre continuo ad osservarlo silenziosamente.

E poi di colpo mi stringe a sé, avvolgendomi con tutta la sua insostituibile ed inimitabile essenza, come volesse nascondermi, come volesse premurosamente custodirmi, come volesse attentamente preservarmi. Non fiatava, non aveva bisogno delle insufficienti e spesso frivole promesse, sapeva arrivare dove le parole devono inevitabilmente bloccarsi, dove le parole devono necessariamente eclissarsi, concedendo agli intimi e particolarmente espressivi sentimenti il ruolo indiscusso di protagonisti, su di un autentico e tanto reale palcoscenico. Mi resi conto di quanto quel tenero ed affezionato abbraccio m’avesse gratuitamente regalato, di quanto m’avesse silenziosamente concesso; mi resi conto di quanto quell’essere m’avesse amabilmente restituito.

5.

Stringendo la mia mano scarna, esce lentamente dall’ospitale ed incantevole stanza. Vorrebbe portarmi via con sé, quell’amabile ed affascinante essere capace di scendere all’inferno anche solo per farmi sentire meno sola, meno affranta.
Poi giro la testa, indirizzando intenzionalmente lo sguardo alla luminosa cucina e riconosco il corpo morbido ed armonioso di una donna dai riccioli biondi e lievemente striati, che parla silenziosamente con mia madre. Ascolto la sua voce spezzata ma comunque melodiosa che sussurra; ne resto incantata, profondamente stregata: è come se stesse intonando una delle più belle e delicate ninne nanne, è come se stesse soavemente e dolcemente sfibrando quell’atmosfera cupa e tersa, quell’atmosfera pesante e sofferente, è come se stesse gradualmente illuminando ed impreziosendo una giornata dolorosa e tanto straziante. Poi si gira, mi osserva scrupolosamente per qualche istante come per accertarsi che io fossi lì realmente, e corre verso di me, spalancando maternamente le braccia e cingendomi teneramente: “ciao bella di zia, non aver paura, passerà tutto e il sole tornerà a brillare più lucente e sfavillante di prima, passerà tutto e la vita tornerà a sorriderti più fervidamente ed appassionatamente di prima. Non arrenderti dinnanzi a questo spietato e disumano avvoltoio, non arrenderti dinnanzi a questa opprimente e mastodontica montagna che ti impedisce la vista del più bel cielo che questa povera ed umile terra possa mai offrire, non arrenderti, piccola mia, dinnanzi a questo crudele ed implacabile ladro di giovinezza e di bellezza”.

E adesso mi stringe sempre più fortemente, mentre soffre sempre più profondamente, mentre mi ama sempre più intensamente.
Non riesco a trattenere le lacrime che ora sgorgano impetuosamente dai miei occhi allungati e piuttosto dolenti, non riesco più a controllare le travolgenti e devastanti emozioni, non riesco più a dominare le mie più intime e spesso respinte inquietudini. Mi lascio così cadere debolmente, sicura che quelle braccia non mi avrebbero codardamente abbandonata, miseramente ignorata o meschinamente ripudiata.
Penso a questo dolore tanto atroce, avvilente e mortificante; penso a questa estrema ed estenuante fragilità; penso a questa maledetta vita che amo così tanto, a questa maledetta vita che non so affrontare, che non sono in grado di reggere e che tendo ingenuamente a sabotare.

6.

Osservo impaurita le frettolose e a tratti angoscianti lancette dell’orologio, che parevano più rapide e fuggevoli del solito, che parevano intimamente inquiete e particolarmente timorose. Percepisco la pressione di un tempo fugace ed indifferente proprio sulla pelle, ormai esperta nell’arte del rabbrividire, percepisco l’intensa insistenza di un tempo effimero, instabile, passeggero, che ci illude con le sue disarmanti promesse di eternità, che ci illude con la sua costante ed ostinata presenza, che ci illude con le sue belle ed ingannevoli speranze.
Sono le 21.00. Il cervello gradualmente comincia ad abbandonarmi, ad ignorarmi, a trascurarmi, gradualmente comincia ad implodere miseramente, a sovraccaricarsi di pensieri gravemente soffocanti, fino a collassare. Avverto il pericolo di una cena sempre più vicina, di una cena infame e traditrice, di una cena crudele, feroce, per me eccessivamente e smisuratamente spietata: non ero più io, il mondo non era più lo stesso, la vita non era più la stessa, come se un’essenza diabolica ed infernale avesse ghiacciato e divorato il mio docile sangue fanciullesco, come se un’essenza implacabile e disumana avesse brutalmente infranto la mia giovane anima sfinita, il mio fragile ed esausto cuore, il mio scarno e pallido corpo.
Quel miserabile seppur tanto comune pasto avrebbe distrutto e devastato la mia famiglia incapace di vedermi morire così, incapace d’essere spettatore indifferente della mia inevitabile e disperata resa. E non potevo reagire, rispondere alla cattiveria di una regista severa ed intransigente, di una matrigna rigida ed irremovibile, di un nemico impetuoso ed irrefrenabilmente brutale: aveva imparato a zittirmi, a sopprimere la mia voce sottile e leggera, a soffocare i miei pensieri frastornati e disorientanti, ad annientare la mia restante e morente felicità.

“Vieni a tavola, fallo per il mio cuore di te follemente innamorato” sussurra allora mio padre, quasi singhiozzando. Mi prende teneramente per mano, allontanando poi la sedia dal rigido tavolo per farmi comodamente sedere. Vedo una strana luce nei suoi occhi scuri e vivaci, vedo un esclusivo e rinnovato splendore sul suo volto vellutato ed armonioso, vedo un’amabile e fiduciosa fantasia che intralcia e contrasta soavemente i suoi disillusi ed avviliti pensieri.
La tavola è imbandita perfettamente, adornata ed impreziosita dal sottofondo melodioso e quasi impercettibile della televisione e dall’inebriante e fragrante profumo del pane caldo, appena sfornato. Scruto attentamente ogni singola pietanza, ogni colorato ed abbondante piatto, ogni terrificante ed atroce tentazione. Cerco di ipotizzare razionalmente e dettagliatamente quante calorie stessero decorando quella vergine e profumata tovaglia: e distolgo rapidamente lo sguardo timido ed impaurito da tutto quello sfarzo per l’angosciante e tenace paura di ingrassare, per l’umiliante ed asfissiante paura di crescere, di guarire.
Depongo ogni futile e deludente arma e mi arrendo, incapace di dominare e ricucire le mie profonde e laceranti ferite, incapace di sovrastare i miei lancinanti e strazianti tormenti. Mi alzo impaurita ed ansimante, con gli occhi bassi e provati dal miserabile fallimento e scappo via da tutto quel candido amore, da tutta quella travolgente ed aggraziata passione, da quell’estenuante e stupefacente paradiso terrestre.
Sento adesso dei passi insicuri ed instabili che seguono la mia ombra malinconica, dei passi frettolosi e rumorosi che non distolgono l’attenzione dalle mie gracili gambe, dei passi leggiadri che supportano il mio cedevole ed indifeso corpo. Mi fermo istintivamente, senza girarmi, ed una mano spaventata ma rincuorante accarezza lievemente la mia spalla destra. La pelle percepisce esattamente ogni movimento, ogni spostamento, ogni delicato e tenero gesto; percepisce ogni fiducioso sguardo, ogni soffice respiro, ogni sensibile ed intenso battito. Poi libero la mente e mi ubriaco del profumo di quel corpo che mi spalleggia, che mi protegge, che mi difende; mi ubriaco del profumo di quel valoroso paladino che mi abbraccia, intiepidendo i miei aspri dolori, di quel coraggioso soldato che mitiga e lenisce la mia sofferenza.
Lo guardo e penso a quanto sia irreprensibile nel suo ruolo di padre, a quanto sia instancabile la sua pazienza, a quanto sia inesauribile la sua forza. E con incredibile facilità e spensieratezza, la sua presenza ora mi riporta alla mente tutti gli infantili e dolci ricordi, il suo odore rievoca e rinvigorisce languidi e quasi idilliaci episodi d’infanzia, lieti episodi che non smetteranno mai di cingere il mio vulnerabile inconscio. Così mi lascio stringere, avvolgere, come fossi un bimbo in fasce ancora impaurito dalla luce della vita.

7.

Dopo mesi di paurosa ed intensa oscurità, dopo mesi di assoluta immersione nel buio, dopo mesi di ibernazione nella notte, di docce velenose e terribilmente taglienti, a seguito di un rigenerate e quasi platonico riposo tra le braccia della mia dolce mamma, circondata dall’essenza del suo respiro lieve, rassicurata dal suo morbido e premuroso petto, stamattina ho voglia di vedere il sole, di provare a sgelare le mie sensibili ed indolenzite iridi, di provare a sollecitare e riscaldare le palpebre assonnate e timorose, di provare ad esporre la pelle del mio viso timido e piuttosto biancastro alla tiepida luce semi-primaverile dei raggi solari
Sono le 8.00, scendo in giardino ed osservo incantata la frescura della notte che non s’è ancora definitivamente vanificata, la rugiada che ancora inumidisce le cedevoli foglie d’ulivo, quando ancora tutto tace soavemente e teneramente. Comincio a respirare, sentendo prima l’aria pervadermi il petto tremolante e poi, subito dopo, avvolgermi, “intiepidirmi”. E questa quiete mi pare così irreale, fiabesca e, a tratti, anche estremamente illusoria. “Non posso io meritare tanta bellezza gratuita e spontanea, tanta bellezza candida ed innocente, tanta bellezza autentica ed inestimabile.” penso. Io che l’ho tanto disprezzata e ripudiata, io che l’ho bandita e ferocemente respinta, io che ho preferito l’oblio e le tenebre, io che mi sono segregata, isolata e rifugiata in un prestante vortice che sa di dolore e di morte.

Adesso la guardo e penso a quanto bella e disarmante sia, a quanto l’abbia inconsciamente desiderata e a quanto abbia sofferto per non poterne godere. È qui per me, solo per me adesso. Sa di buono, sa di ciò che più amo in questa vita, di ciò che mi ha ridato vita, di ciò che probabilmente mi sta tenendo in vita.
E guardo ora le persiane dei palazzi antistanti che cominciano a schiudersi, ad aprirsi ed affacciarsi gradualmente al mondo, lasciandosi penetrare ed impreziosire dall’abbagliante e folgorante energia di un sole mite ed ancora titubante, di un sole chiaro ed ancora pallido, di un sole innocente ed ancora vergine. Sento l’aria che si riscalda vivacemente, che sgela progressivamente le sue molecole infreddolite e raggelate dall’impassibile torpore della notte, dalla sua tirannica e prepotente oscurità, dalle sue radicate e caparbie tenebre. Ascolto il sonoro pigolio degli uccellini che si prestano a svolazzare sin dal mattino, che si prestano a rallegrare ed affollare un cielo ancora piuttosto scarno, infelice e lontano. Percepisco poi incredula il rumore dei miei pensieri, tranquilli e sereni, pacati e fiduciosi, pazienti ed incontaminati. Percepisco un’insolita ed inconsueta felicità, un’incredibile e disarmante spensieratezza, una ritrovata e riscoperta limpidezza. La vita, in questo istante che avrei voluto durasse per sempre, mi sta ridando tutto quello che mi ha infelicemente sottratto, tutto quello che mi ha crudelmente derubato, tutto quello che mi ha spietatamente confiscato. Mi sta restituendo magicamente tutti i sogni strangolati, mi sta restituendo un’anima gravemente vessata e soffocata, mi sta restituendo miracolosamente la mia amata, odiata, desiderata e tormentata giovinezza.
“Forse non sto morendo” mi ripeto. E sorrido, sorrido teneramente, sorrido come non facevo ormai da tempo.

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