di Maria Tisci
<<Provarci. Ingessati, costretti, e provarci ancora>>, sono queste le parole usate per presentare la rassegna Il peso della farfalla organizzata da Punti Cospicui a Bari. In questa occasione ho visto in anteprima lo spettacolo “Vivere!” di Piscopo-Carrozzi, che ha debuttato a Roma lo scorso 4 febbraio e sta continuando la sua tournée in giro per l’Italia.
La drammaturga e attrice Anna Piscopo indaga il mondo di un’aspirante influencer che si muove tra la povertà e la voglia di affermazione. Il colore predominante è il rosa più famoso di sempre, il Rosa Schiaparelli. La protagonista non ha paura di mostrare il proprio corpo, di scoprirlo, di proporlo come merce di scambio e si fa strada con un andamento incerto sui suoi alti tacchi tra i cumuli di vestiti sparsi qua e là sulla scena. Se la nota stilista Elsa Schiapparelli ha pensato e ricercato le contaminazioni con Dalì e altri noti artisti dell’epoca e ha prodotto abiti che non temevano di ‘mostrificare’ i corpi, giocavano con tessuti e forme, creando capi iconici come l’ abito scheletro, la protagonista dello spettacolo, Calimba Di Luna, usa il suo corpo in modo inconsapevole, lo mette a disposizione del suo pubblico, lo mercifica senza troppe riflessioni o paura delle conseguenze.
Questa profonda e nuova forma di solitudine che abbraccia il contemporaneo emerge come uno dei temi di questo spettacolo: è come se la Piscopo mettesse una lente d’ingrandimento su una millennial circondata dalla sua community virtuale, ma isolata da una comunità di carne ed ossa, avulsa da una quotidianità fatta di piccoli gesti e socialità. Se qualche anno fa sarebbe stato difficile empatizzare con un personaggio in tale stato di isolamento, oggi è più semplice provare a immedesimarsi con una protagonista che abita un mondo in cui regna il perenne divieto di socialità e l’unica eccezione prevista è quella mediata dai supporti digitali.
La scena si apre con il palco ricoperto di cumuli di vestiti e oggetti rimessi un po’ a caso, che rimandano immediatamente alle immagini che hanno fatto il giro del mondo, rilasciate dall’agenzia francese Agence France-Presse del deserto di Atacama che ritraggono le discariche selvagge di abiti dismessi del fast fashion in territorio cileno. Un po’ come la Venere degli stracci del Pistoletto, la protagonista abita quel piccolo palco con delle movenze contenute, da una parte per per il poco spazio disponibile lasciato da quella grande quantità di indumenti e dall’altra perché probabilmente il palco era troppo stretto per contenere tutti gli oggetti di scena.
L’immagine di una donna costretta in un labirinto rosa, costruito e alimentato da lei stessa, restituisce la sensazione di claustrofobia e la confusione davanti a un mondo che corre troppo veloce, che non si fa in tempo a comprendere e ha già cambiato algoritmo e trend e ci lascia indietro nella disperazione della solitudine. I contatti di Calimba di Luna con tutto ciò che c’è fuori dalla sua stanza sono solo le dirette con i suoi followers, le chiamate del Papi, presunto amante mai incontrato, e i rumori e le minacce del vicinato. Il linguaggio riservato a questa donna è violento, è quello del disprezzo, eppure lei non rivolge le stesse parole ai suoi aguzzini e dispensa consigli ai suoi followers e parole di speranza per la vita che l’aspetta fuori da quelle quattro mura. È una preparazione alla vita, è un’esortazione a vivere che diventa cenere quanto prova a varcare la soglia della porta della sua stanza.
Questo è un monologo scritto da chi non ha bisogno di epiloghi edulcorati e guarda l’esistenza dando voce a chi probabilmente non conosce le parole necessarie per parlare della propria disperazione. È uno spettacolo drammatico dai toni grotteschi che soltanto alla fine, a distanza di giorni, rilascia il suo messaggio più profondo, un invito a guardarsi davvero intorno, a smetterla di prepararsi a vivere e a correre incontro a una giornata di sole correndo il rischio di incontrare qualche nuvola.
Gli organizzatori della rassegna, Punti Cospicui, e l’ associazione Giù la maschera, che gestisce il teatro che ha accolto la serata hanno realizzato una rassegna itinerante, che non si ferma al centro della città, ai luoghi più noti di Bari, ma si sforza di portare il pubblico alla scoperta di nuovi teatri, come appunto l’accogliente teatrino di Carbonara.
Il celebre architetto, nonché presidente della Triennale di Milano Stefano Boeri, in un’intervista rilasciata per la rivista Hystrio, alla domanda su quale significato conserva il teatro per la vita della polis, cita il sociologo Goffman, dicendo che il teatro è un evento pubblico << a interazione focalizzata>>, cioè è un evento collettivo che si svolge attorno a degli esseri umani, gli attori, che hic et nunc mettono in scena un testo teatrale. Spesso questi eventi collettivi sono appannaggio di chi vive in prossimità dei centri urbani e di chi può permettersi il costo di un biglietto. Cosa resta delle periferie? di tutti quei luoghi in cui il teatro non è contemplato nella vita della polis o è semplicemente dismesso per mancanza di fondi o cura? Non mi riferisco solo alle periferie dei grandi centri urbani, ma a tutti quei paesi lontani dalle grandi città, dove i mezzi pubblici e le infrastrutture non coprono neanche i bisogni primari.
Che si parli ancora della differenza tra centro e periferie e di città e provincia, potrebbe risuonare anacronistico a molti, ma racconta di un territorio frastagliato, in fase di crescita, in cui nonostante gli sforzi, la cultura resta ad appannaggio dei pochi che hanno la fortuna di poterne fruire. Certamente questa rassegna e altre piccole realtà – per citarne solo alcune il teatro della XII di Roma, l’Expostmoderno nel quartiere Libertà di Bari o il meraviglioso teatro Koreja di Lecce – ci ricordano come è possibile pensare la cultura in modo diverso. Immaginare il teatro come aggregatore, come luogo di scambio di idee, per stimolare le menti assopite e restringere il divario tra chi può permettersi un orizzonte più vasto di possibilità e chi dell’isolamento ne fa una scelta obbligata.